«A Tel Aviv ho dato tutto, ora voglio servire Israele». Parla Ron Huldai

L'intervista al sindaco della metropoli dopo l'annuncio della sua "discesa in campo"

Da 22 anni è il sindaco di Tel Aviv, la capitale economica e finanziaria d’Israele, la “patria” delle start up, la città che vive h24. Di Tel Aviv, Ron Huldai non è “solo” il sindaco che da oltre due decenni ha sbaragliato ogni competitore, di destra, di centro, di sinistra. Di Tel Aviv è il volto duro ma rassicurante, amato dai giovani a cui riesce a parlare e a trasmettere messaggi ed emozioni nonostante i suoi 76 anni. Ora Ron Huldai ha deciso di portare la sua esperienza e il suo indiscutibile carisma nell’arena politica nazionale, candidandosi alla Knesset, il parlamento israeliano, con il partito che ha appena fondato: “The Israelis”.

«Quello che sta succedendo in Israele è terribile. Non posso stare a guardare un Paese che sta precipitando nel baratro per responsabilità di un primo ministro che si considera al di sopra di tutto e di tutti, anche della legge», dice Huldai in questa intervista in esclusiva concessa a Reset. Rifiuta di essere dipinto come l’anti Netanyahu: «Uno dei mali della politica dei nostri tempi – annota Huldai – è la personalizzazione esasperata, l’idea che possa esistere l’uomo della provvidenza capace di risolvere da solo problemi enormi, come, per venire all’oggi, quello della pandemia virale. Una cosa ho imparato nella mia lunga esperienza di sindaco: per fare bene, occorre saper costruire una squadra. Israele ha bisogno di un buon direttore d’orchestra, non di un accanito solista che si rifiuta di uscire di scena».

Per la quarta volta in due anni, a marzo prossimo, Israele torna al voto. Quattro elezioni anticipate, un primato mondiale. Stavolta, gli israeliani andranno al voto in maschera, visto che il Covid-19 è stato tutt’altro che debellato, nonostante Israele sia all’avanguardia nelle vaccinazioni. Perché si è giunti a questo punto?

Di tutto gli israeliani avevano bisogno, tranne che imbarcarsi in una nuova campagna elettorale che, come tutte le altre tre che l’hanno preceduta, rischia di trasformarsi nel referendum su una persona, l’uomo che si crede il Re d’Israele: Benjamin Netanyahu.

Perché ha deciso di candidarsi alla Knesset e di fondare un nuovo partito, The Israelis? Fare il sindaco d Tel Aviv non la soddisfaceva più?

Io amo questa città, e ho amato fare il sindaco per ventidue anni. È l’esperienza che ha segnato la mia vita, che ha lasciato in me ricordi indelebili. Fare il sindaco è uno dei “mestieri” più difficili e al tempo stesso affascinanti. Perché non puoi perderti in chiacchiere, ogni giorno devi misurarti con i problemi veri della gente a cui non puoi rispondere con le chiacchiere. Sei giudicato per quello che fai, non per quello che dici. Lei mi chiede perché ho fatto questa scelta che, mi creda, non è stata facile. In tanti mi hanno detto: Ron, pensaci bene, alla tua età, e poi c’è Tel Aviv… Io ci ho pensato bene, ma poi mi sono detto che non posso stare a guardare un Paese che rischia di precipitare nel baratro. Non mi considero di certo l’uomo della provvidenza, lascio volentieri a Netanyahu questa convinzione, né posseggo la bacchetta magica per risolvere di colpo tutti i gravi problemi che affliggono Israele. Ma so cosa sia la serietà nell’amministrare la cosa pubblica, so che c’è bisogno di restituire speranza ai tanti che l’hanno persa, delusi da una classe politica sempre più autoreferenziale, che continua ad oscillare tra manovre di palazzo e rilanci fuori misura. Fare politica, per quel che mi riguarda, significa scegliere e assumersi le responsabilità che ne derivano. Scegliere le priorità sociali, su cosa investire, saper dire dei sì e dei no. Sembra una cosa facile, ma mi creda non lo è.

Saper dire dei no. Partiamo da qui. No a che cosa?

No a una demagogia che ha spaccato la nostra comunità nazionale, ad una visione politica, quella di cui Netanyahu e le destre sono portatori, in cui non esistono avversari ma solo nemici contro cui scatenare l’odio della piazza. No ad una politica che radicalizza le posizioni, che non ascolta le ragioni dell’altro da sé. Potrei continuare a lungo, ma sarebbe sbagliato. E sa perché?

Perché, signor sindaco?

Perché vorrebbe dire fare il gioco di Netanyahu. Metterlo al centro dell’attenzione, personalizzare lo scontro. Su questo terreno, Bibi è imbattibile. A me non interessa essere parte di una coalizione “anti”. Io vorrei contribuire a costruire un’alleanza “per”. Capisco l’esasperazione delle decine di migliaia di israeliani che in questi terribili mesi di pandemia hanno continuato a manifestare contro un primo ministro e un governo che hanno gestito in maniera scriteriata, irresponsabile, la crisi pandemica. Lo dico a ragion veduta, perché, da sindaco, ho visitato gli ospedali di Tel Aviv, ho avuto un contatto quotidiano con quelli che non è retorica definire gli eroi d’Israele: i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari che sono da mesi in prima linea nella “guerra” al Covid.  So in quali condizioni operano, e so che la loro sofferenza è anche il prodotto di una scellerata politica di privatizzazione della sanità che ha sottratto risorse preziose, vitali, al sistema pubblico. Ora Netanyahu prova a risalire la china giocando la carta dei vaccini. Ma se Israele riuscirà a primeggiare in questo, è per merito dei suoi ricercatori, dei suoi scienziati, e non certo di un primo ministro che fino all’altro giorno continuava a dileggiare pubblicamente medici e scienziati, insultando lo stesso commissario alla lotta al Covid che pure era stato nominato da Netanyahu stesso.

La politica dei sì, dunque. Per fare cosa?

Per investire nella ricerca, per fare sempre più di Israele la “Nazione delle start up”, all’avanguardia nel mondo. Sì a maggiori investimenti nell’istruzione, nelle infrastrutture, e anche per rilanciare un piano d’industrializzazione del Paese. La destra si batte se si è capaci di rinnovare l’agenda delle priorità, parlando il linguaggio della concretezza, che è altra cosa da un pragmatismo senza visione o idealità. Quando penso all’Israele del futuro, penso ai tanti giovani che hanno lavorato nelle periferie più disagiate di Tel Aviv, quelle popolate da lavoratori stranieri che soffrono più di altri la crisi economica e occupazionale provata dalla pandemia. L’Israele a cui penso è un Paese inclusivo, che fa i conti con la sua identità senza fare di essa un fattore divisivo, come fa la destra.

A cosa si riferisce?

A cosa significa essere ebreo. È il grande tema dell’identità di un popolo. Vede, i padri fondatori d’Israele erano mossi da una grande visione: realizzare uno Stato focolaio nazionale ebraico. Ma questo non voleva dire che l’affermazione di questa identità dovesse portare alla creazione di cittadini di serie A e cittadini di serie B. Essere uno Stato per gli ebrei non porta meccanicamente con sé il considerare la minoranza araba, che rappresenta oggi oltre il 20% della popolazione israeliana, come un peso, una escrescenza da marginalizzare. Questa visione non mi appartiene.

Questo significa che nella “coalizione dei sì” che lei auspica, c’è posto anche per la Joint List, la Lista araba unita?

Assolutamente sì. Così come il campo ebraico, anche quello arabo non è un monolite, esistono differenze interne, c’è una componente più laica e un’altra più religiosa. Io dico: discutiamo di un programma fondamentale sulle cose da fare, sulle priorità dell’azione di governo, e su questo cerchiamo una condivisione. Lascio ad altri i pregiudizi ideologici. Io mi batto per rafforzare la nostra democrazia, e non per costruire un sistema etnocratico.

Lei è stato eletto e riconfermato più volte sindaco di Tel Aviv come indipendente, ma nel suo passato, anche se lontano, c’è anche la militanza nel Partito laburista. Un partito, quello che fu di David Ben Gurion, Golda Meir, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, che, secondo recenti sondaggi, rischia per la prima volta nella storia d’Israele di restare fuori dalla Knesset.

Sarebbe una sciagura per la nostra democrazia, la sanzione di un fallimento epocale, che va ben oltre la contingenza di una elezione. Stiamo parlando di un partito che ha fatto la storia d’Israele, che ha costruito le fondamenta dello Stato. Non è un problema di sopravvivenza ma di prospettiva. Non sono certo io a decidere cosa farà il Labour, ma non sono certo indifferente al travaglio che quello che un tempo fu anche il mio partito, una appartenenza di cui vado orgoglioso. Non dobbiamo disperdere neanche un voto, e per questo cerchiamo di costruire liste che non si facciano la guerra, perché questo sarebbe il più grande regalo che potremmo fare alle destre.

Ritiene anche lei, come molti leader di centro e di sinistra, Benjamin Netanyahu un pericolo per la tenuta democratica d’Israele?

Un pericolo no, un problema, un grosso problema, questo sì. E lo è non perché sia un uomo di destra: lo erano anche Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Ariel Sharon, persone distanti anni luce dalle mie idee ma che hanno fatto la storia d’Israele. Ma nessuno di loro ha mai anteposto i propri interessi personali a quelli del Paese. Avevano un senso della Nazione profondo, e mai si sarebbero sognati di gridare al golpe legale perché indagati dalla magistratura. In Israele primi ministri e capi di Stato si sono difesi in tribunale e quando sono stati giudicati colpevoli e condannati, hanno scontato la pena, come qualsiasi altro cittadino. E questo fa onore a Israele, al suo essere uno stato di diritto fondato sull’equilibrio dei poteri. Un equilibrio che Netanyahu ha fortemente incrinato con il suo atteggiamento. Le regole sono il sale di una democrazia e non si piegano al populismo o soggiacciono alla dittatura della maggioranza. Qui non si tratta di destra o sinistra, ma di condividere un’idea di Stato, di comunità nazionale, che unisce chi governa e chi sta all’opposizione. Per questo scendo in campo.

 

Foto: Hubert Burda Media

  1. L’uomo ideale perché Israele,allo stato attuale, rischia di alienarsi il ssostegno internazionale . Una bella intervista carica di buon senso e senza fanatismi né deliri di onnipotenza

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