Comunità, non caserme. Appello per un Libano libero dal fondamentalismo

Una richiesta di sostegno da Beirut dopo l'assassinio dell'intellettuale Loqman Slim

Il ritorno degli omicidi mirati mette il Libano di nuovo in pericolo: il sangue di un grande intellettuale sciita, Loqman Slim, torturato e poi assassinato, forse perché sapeva troppo sull’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto scorso e comunque per mettere a tacere il suo pensiero liberale, indica una minaccia mortale per l’ultimo sprazzo di sole nel plumbeo cielo arabo, coprendo sotto una cappa scura le speranze di comprensione mediterranea. Davvero è così?

Giovanni Paolo II definì il Libano “un messaggio”. Ritenuta da molti una “frase fratta”, il classico esempio di irenismo astratto, che messaggio sarebbe il Libano? Come avrebbe potuto essere un messaggio di pace e convivenza dopo tre lustri di guerra civile così feroce da averne distrutto la capitale?

Proprio quella esperienza tremenda ha reso il Libano un vero messaggio: il messaggio di chi ha capito che le comunità non devono essere caserme, o peggio ancora gruppi di fiancheggiatori di milizie confessionali. Capirlo, purtroppo sulla propria pelle a volte, è scegliere di “rinascere insieme”, la rinascita libanese che ha incluso tutti, archiviando i desideri di ripartizione in base alla forza numerica di ogni comunità, ma scegliendo il criterio paritario tra musulmani e cristiani. Pari nella rappresentazione parlamentare perché pari nel ruolo sociale.

Ben presto la storia è tornata tremenda, e una raffica di delitti tra il 2005 e il 2007 ha eliminato i principali esponenti culturali di questa visione nel campo cristiano e il leader che incarnava la strada dell’incontro nell’indipendenza nazionale nel campo sunnita, Rafiq Hariri.

L’ombra delle comunità trasformate in caserme è da allora tornata incombente sul Libano, soprattutto per via della presenza di una sola milizia, teocratica e in armi, Hezbollah, prodotto di passate vessazioni. Ma la guerra siriana ha convinto molto cristiani che l’Islam sunnita fosse un partner impossibile perché “culturalmente prevaricatore”. Solo un’alleanza tra minoranze, la minoranza dell’Islam, gli sciiti, e la minoranza del Paese, i cristiani, avrebbe consentito alle minoranze di sopravvivere.  Questa forzatura che trasferisce sui sunniti in quanto tali le colpe del fondamentalismo sunnita  finisce con il sostenere le analoghe colpe del khomeinismo. Totalitari e teocratici non sono i sunniti o gli sciiti, ma i fondamentalisti sunniti come i khomeinisti.

È un’esagerazione? È una rappresentazione “occidentale” che non tiene conto della realtà “orientale”?  La solidarietà che ci viene espressa da personalità di tutti i campi culturali libanesi per il sangue versato dallo sciita liberale Loqman Slim, seviziato, torturato e poi ucciso con sei colpi esplosi a bruciapelo, ci dimostra che gli estremisti non rappresentano le loro comunità ma le sfidano contro la loro libertà.

La solidarietà di cui parliamo non è solo “privata”. Un autorevole gruppo libanese ha chiesto a Reset di unirsi alla loro denuncia. Loqman Slim è stato un giovane e autorevole intellettuale, un grande scrittore, un valente editore, un’autorevole voce liberale. Ha scelto in piena consapevolezza di rimanere a vivere nella sua Beirut sud, il quartiere sciita dove è cresciuto da sciita ma non di Hezbollah. È stato ucciso per questo, sapeva che nulla nello sciismo impedisce di credere nella libertà.

Ed eccoci agli autorevoli interlocutori libanesi che ci chiedono l’impegno da italiani per seguitare a dire che il “Libano è un messaggio”, che le comunità non sono caserme.

Sono libanesi che nascono nella comunità sciita, come la professoressa

Mona Fayyad

e il coordinatore del raggruppamento dei liberi del sud del Libano,

Hussein Ataya,

nella comunità sunnita, come l’ex ministro

Ahmad Fatfat,

nella comunità maronita, come il presidente dell’associazione Madonna della Montagna

Fares Souaid

e l’opinionista

Saad Kiwan,

nella comunità cristiano ortodossa, come il vincitore del premio giornalistico Samir Kassir,

Michel Hajj Georgiu

e il professor

Antoine Courban.

Loro esprimono, insieme, la forza del “messaggio” che il Libano incarna e vuole seguitare a incarnare, senza imposizioni miliziane e scorciatoie di potere a rimorchio.

Loqman Slim è il nuovo Giacomo Matteotti libanese, i suoi amici chiedono agli italiani di dirlo e difendere la libertà per la quale ha speso la vita, fino alla morte per mano di chi crede che una comunità di fede sia una caserma. Eppure la sua piccola vittoria l’ha avuta: tutte le telecamere libanesi hanno ripreso una scena che non ha precedenti nella storia recente del Libano. Per salutare Loqman Slim e rendergli omaggio nel patio della sua abitazione molti politici cristiani, che hanno combattuto durante la guerra civile contro i musulmani, per la prima volta in vita loro sono entrati a Beirut sud, il quartiere di chi oggi temono di più. Un attestato che vale più dei timori di religiosi che dopo quel pubblico atto ossequio, intimiditi, si sono ritratti, impauriti.

 

Foto: AFP

  1. Caro Riccardo
    Condivido il tuo commento, anche perché dai firmatari conosco diverse person. In più ho intervistato Lokman Slim nel suo quartiere Haret Hrek nel Sud di Beirut dove anche io ho vissuto nel 2015.
    L’indifferenza nei confronti di quello che succede in Libano è un lusso che non possiamo permetterci. Ci sono seri segni di un’alteriore evoluzione di Hizbollah verso un’organizzazione che arriva sempre di più ad eliminare gli avversari ma anche le voci critiche.
    Saluti amichevoli

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