Accordi di Abramo: Siria e Libano alla prova del concerto arabo

Uniti dalla geografia e da una lunga storia che dalla fine dell’impero Ottomano e in particolare nella lunga stagione degli Assad ha assunto i tratti del colonialismo e dell’occupazione nel nome della “Grande Siria”, libanesi e siriani condividono oggi la stessa speranza: che il domani sia diverso dall’oggi e archivi i conflitti, riducendoli a “guerre di ieri”. È la realtà che lo impone. Nel 2018 il Pil del Libano superava i 55 miliardi di dollari; oggi arriva malapena a 20. Centomila lire libanesi, allora pari a 65 dollari, oggi ne valgono uno. In Siria, nel 2011, quando cominciò la feroce repressione delle proteste antigovernative, il Pil raggiungeva i 45 miliardi di dollari, oggi è di appena 9, mentre la produzione di Damasco, un tempo “il granaio del Medio Oriente”, non soddisfa neanche più il fabbisogno nazionale.

Dopo quasi un secolo di fratricidio, le ragioni di un buon vicinato, capace di porre fine a imperialismi e particolarismi, appaiono evidenti. Un nuovo pensiero potrebbe renderlo possibile, come ha sintetizzato il nuovo presidente libanese Joseph Aoun: sovranità e adesione al “concerto arabo”. Ma oggi la direzione di marcia araba sembra dettata dagli influenti Paesi del Golfo, con in testa Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Si tratterebbe dunque di riconoscere che sono loro i vincitori del conflitto arabo che per tutta la seconda metà del Novecento ha contrapposto le corone dei petromonarchie (che vivevano di rendita parassitaria) alle repubbliche dei generali golpisti (custodi del dirigismo statale). Questa visione non richiederebbe una discontinuità per Beirut, ma per Damasco sì. Un cambio di regime in Siria, un’inversione a U, potrebbe portare il Paese su questa linea? Sarebbe la fine del dissidio siro-libanese. Ma la Siria, guidata ora da un ex miliziano di al-Qaida e poi dell’Isis, Ahmed al-Sharaa, può scegliere questa strada?

 

Dalla caduta di Assad al ritorno della Siria sulla scena araba

 

La nuova Siria è nata da pochi mesi, e i primi passi di al-Sharaa sono apparsi in continuità con la linea degli Assad, soprattutto in termini di dirigismo e centralismo. Ma la Siria, da sola, non potrà farcela e il vero attore dominante è apparso da subito non un Paese arabo, bensì la Turchia. Non certo il contesto migliore per immaginare un’adesione all’idea di “concerto arabo”. Il quadro è mutato quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in visita in Arabia Saudita, dopo un lungo colloquio con il principe Mohammed bin Salman, ha annunciato la decisione di togliere le sanzioni che soffocavano ogni prospettiva di ripresa economica siriana. La morsa era studiata per piegare il regime degli Assad, abbattuto dagli islamisti di al-Sharaa alla fine del 2024. Trump, che ha ottimi rapporti anche con Recep Tayyip Erdogan, ha chiarito che a spingerlo su questa strada è stato anche il leader turco. Da allora però i rapporti tra Damasco e le principali capitali arabe si sono intensificati, in particolare con Riad e Abu Dhabi.

Le affluenti corone arabe del Golfo, che da anni temono l’islam politico e il fondamentalismo di cui anche al-Sharaa è espressione, non lo hanno certo accolto con simpatia. Eppure, hanno favorito la svolta di Trump, confidando che la condizione di assoluta, emergenziale necessità inducesse il nuovo leader a scegliere il pragmatismo. Per Nicholas Heras, del New Lines Institute di Washington, “le autorità emiratine considerano al-Sharaa e i suoi alleati come un pericoloso esempio di movimento militante islamista rivoluzionario di successo in Medio Oriente. Al-Sharaa è la personificazione di tutto ciò contro cui gli Emirati hanno investito miliardi di dollari per combattere in tutta la regione”. L’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman non è molto distante.

Damasco dipende militarmente dalla Turchia, con la quale condivide un lungo e problematico confine, ma il sostegno dei potenti vicini arabi è indispensabile per al-Sharaa. Nonostante la decisione americana di revocare le sanzioni – che richiederà tempo per andare a regime – le previsioni economiche per il prossimo anno indicano una crescita di appena l’1 per cento. La ricostruzione, dopo 14 anni di devastazione bellica, comporterà invece una spesa di 400 miliardi di dollari. Riad e Abu Dhabi restano decisive per poter anche solo immaginare un futuro per la nuova Siria.

 

Al-Sharaa tra Accordi di Abramo e fragilità interne

 

Durante il suo colloquio con al-Sharaa, dopo aver annunciato la revoca delle sanzioni, Trump gli ha chiesto di aderire agli Accordi di Abramo, cioè di firmare un trattato di pace con Israele, risolvendo anche il nuovo grave attrito tra i due Paesi, dopo lo sconfinamento delle forze di Tel Aviv per molti chilometri in territorio siriano. C’è un nodo però ideologico nella proposta di Trump: porre termine al rifiuto di Israele, la linea che gli arabi hanno mantenuto per decenni, fino a quando hanno scelto, con tempi diversi, la formula “pace in cambi di territori”. E ora?

Il primo passo concreto è stato l’avvio di un negoziato diretto tra Israele e Turchia sulla situazione siriana. Poi gli Emirati Arabi Uniti hanno favorito colloqui indiretti – per alcuni osservatori anche diretti – tra siriani e israeliani. I punti critici per al-Sharaa, che ha di recente visitato Abu Dhabi, sarebbero due: il primo riguarda la sua base di riferimento, quella jihadista, e un accordo con Israele segnerebbe una rottura con le sue origini. Ma per al-Sharaa c’è anche un problema più propriamente siriano: Damasco rivendica ancora ufficialmente la propria sovranità sulle alture del Golan, occupate e poi annesse da Israele. Il loro ritorno è stato nell’epoca di Assad un cardine dell’ideologia nazionale. Al-Sharaa è disposto a compiere non solo una svolta “ideologica”, ma anche a rinunciare al Golan? Secondo molti media internazionali, l’orientamento che Damasco starebbe valutando è un ritorno al vecchio armistizio con Israele del 1974, corredato da protocolli molto ampi. Questo comporterebbe anche il ritiro israeliano dai territori occupati dopo la caduta di Bashar Al Assad nel 2024 e la fine dei bombardamenti contro le postazioni militari siriane.

Sono diversi dunque i fattori che spingono al-Sharaa a ritenere di dover percorrere questa strada. Il primo ostacolo è costituito dai suoi nemici interni. Il recente attentato suicida contro una chiesa cristiana a Damasco è stato capito dai più come rivolto contro di lui: chi rimane nel vecchio campo jihadista sarebbe pronto a destabilizzare il quadro interno per far fallire il suo passaggio dal vecchio al nuovo. Si tratterebbe di soggetti per lui molto pericolosi perché afferenti all’area dalla quale provengono i suoi quadri, forze mosse non solo da motivazioni ideologiche, ma probabilmente sostenute anche da attori esterni contrari al consolidamento del “concerto arabo”.

L’altro ostacolo è il tempo. Al-Sharaa deve dimostrare ai suoi nuovi interlocutori arabi di essere affidabile; avversando l’islam politico sono ovviamente sospettosi. Per prendere tempo senza perdere in credibilità potrebbe avere una strada: dimostrare, fatti alla mano, che segue la linea indicata da Joseph Aoun, il “concerto arabo”. Qui potrebbe aiutarlo una circostanza indipendente dalla sua volontà. L’adesione agli Accordi d’Abramo è nell’orizzonte dell’Arabia Saudita, che però rivendicherebbe un ruolo guida; intende coordinare i governi arabi che ancora non hanno firmato gli Accordi di Abramo e che intendano farlo? Se così fosse, al-Sharaa potrebbe indicare che tiene conto dei tempi di Riad e della sua leadership regionale.

Ma Riad pensa ancora davvero a un accordo quadro? Questo nessuno lo sa, visto che la Conferenza internazionale sulla soluzione della questione israelo-palestinese – che l’Arabia Saudita aveva convocato insieme al presidente francese Emmanuel Macron – nei giorni in cui poi ebbe luogo l’attacco all’Iran è stata rinviata a data da destinarsi.

L’uomo forte di Damasco, l’ex jihadista al-Sharaa (in passato noto come al-Joulani, “figlio del Golan”, a conferma di quanto rilevante sarebbe per lui rinunciare a quelle alture), potrebbe avere – come molti ritengono – l’intenzione di seguire questa strada. Ma prima deve consolidare il controllo sul proprio fronte interno. La reazione dei suoi nuovi, possibili avversari interni potrebbe far deragliare il processo, se non giungesse rapidamente a un’intesa con gli altri protagonisti della scena siriana, e cioè curdi, alawiti e drusi. I negoziati sono in corso; l’obiettivo, fondamentale, è assorbire nel nuovo esercito nazionale quante più milizie presenti in Siria. Sono in gran parte espressione di queste comunità che non si sentono garantite dalle autorità centrali. I colloqui più importanti e delicati sono in corso in questi giorni a Damasco, con i leader curdi.

Ci si riuscirà? Un siriano che preferisce mantenere l’anonimato osserva: “Molti siriani apprezzano al-Sharaa definendolo ‘uno di noi’. A dirlo sono soprattutto siriani sunniti, la comunità largamente maggioritaria a cui anche lui appartiene. Questo è un consenso importante, ma con un risvolto problematico. Solo quando lo penseranno anche gli altri – aconfessionali o appartenenti alle altre comunità siriane – al-Sharaa potrà sentirsi espressione di tutti e quindi più forte rispetto ai suoi avversari. Se vuole essere leader, deve costruire uno Stato vero”. Ci proverà? Ci riuscirà? Uscirà non solo dal jihadismo, ma anche dall’identitarismo comunitario?

 

il Libano in bilico tra apertura e l’anomalia di Hezbollah

 

Abbracciare la visione di “nuovo concerto arabo” è più semplice per il Libano, pur non avendo mai aderito al panarabismo. Anche le difficoltà tecniche per aderire agli Accordi di Abramo sono minori, in ballo c’è solo una piccola disputa di facciata, quella sulle fattorie di Shebaa. Tra Libano e Israele non c’è una reale disputa territoriale dal 2000, anno del ritiro israeliano dal sud del Paese. La “linea blu” che separa i due Stati è quasi un confine definito, ci sono pochissimi punti disputati. Inoltre quando è stato utile delimitare i confini marittimi per avviare le trivellazioni in mare, Libano e Israele hanno raggiunto rapidamente un’intesa – con il consenso di Hezbollah, che allora giocava un ruolo decisivo. Un eventuale accordo comporterebbe il ritiro dell’esercito israeliano dalle postazioni che continua ad avere in territorio libanese dai tempi della campagna militare contro Hezbollah del 2024.

Le nuove autorità libanesi sembrano però orientate verso una soluzione ampia ma provvisoria. Il quadro interno al Libano non è stabile: Hezbollah, pur ridimensionata sul piano militare rispetto al recente passato, è ancora oggi in armi. Resta sì un partito libanese, ma con un’agenda ancora iraniana, decisa a Teheran. La pressione americana sulle autorità di Beirut è oggi tutta orientata a definire tempi certi per il disarmo effettivo di Hezbollah, come previsto dal cessate il fuoco dello scorso anno. Non solo nel sud del Paese, dove il gruppo operava e dove oggi si è schierato l’esercito libanese, ma su tutto il territorio nazionale. Il disarmo è essenziale innanzitutto per lo stesso governo libanese; nessun esecutivo può essere tale se non ha il monopolio delle armi e della forza.

Ma come procedere? Beirut chiede tempo. Dopo aver preso il controllo di tutte le postazioni nel sud, l’obiettivo è ora un disarmo concordato. Nei palazzi governativi si pensa che fare presto non sia necessariamente fare bene. Ma è altrettanto chiaro che, finché resterà irrisolta l’anomalia di un partito filo-iraniano armato sul territorio nazionale, il “concerto arabo” avrà in Libano il suo tallone d’Achille. Favorire la trasformazione di Hezbollah in partito dall’agenda libanese – magari erede della questione sociale sollevata da Musa Sadr prima che calassero le tenebre della guerra civile – sarebbe un passo cruciale per il Paese intero. Sciogliere questi nodi è decisivo per avviare un’epoca nuova, un’amicizia difficile, per i lasciti di un secolo buio che non riesce a finire.

 

 

Immagine di copertina: un cartellone esposto a Tel Aviv il 26 giugno 2025 dall’iniziativa israeliana “Coalizione per la Sicurezza Regionale”. Da sinistra a destra, il re di Giordania Abdullah II, il presidente del Libano Joseph Aoun, il presidente ad interim della Siria Ahmed al-Sharaa, il presidente palestinese Mahmud Abbas, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Mohamed bin Zayed al-Nahyan, il sultano dell’Oman Haitham bin Tariq al-Said, il re del Marocco Mohammed VI e il re del Bahrein Hamad bin Isa al-Khalifa, con sopra lo slogan in ebraico: “Un tempo per la guerra, un tempo per l’intesa; ora è il tempo dell’‘Alleanza abramitica’”. (Foto di Jack Guez / AFP)

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