Tunisia, Ennahda in bilico: dall’omicidio di Belaid al Sheratongate

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’omicidio di Chokri Belaid, principale leader dell’opposizione tunisina del Fronte Popolare e co-fondatore di Nidaa Tounes, il Partito dei patrioti democratici, rischia non solo di riaccendere il caos nel paese, in una situazione già precaria dal punto di vista sociale ed economico, ma anche di complicarne ulteriormente la scena politica.

Belaid è stato freddato mercoledì 6 febbraio, mentre usciva da casa, con quattro colpi di arma da fuoco e, appena si è diffusa la notizia della sua morte, sono cominciate una serie di manifestazioni in diverse città, a partire da Tunisi dove un gruppo di persone si è dato appuntamento davanti al Ministero degli Interni per chiedere verità, ma dirette anche contro le sedi di Ennahda, il partito di maggioranza che lo stesso Belaid aveva più volte accusato di non fare abbastanza per arginare le frange di islamici ultraconservatori. Proprio ieri sera, durante un comizio, aveva accusato la rinascita di una stretta sull’apparato militare e della giustizia, mettendo in guardia su una nuova possibile fase di violenza in tutta la Tunisia.

Dopo la sua morte, anche la famiglia ha detto pubblicamente che ritiene Rachid Ghannouchi responsabile dell’accaduto, nonostante il primo ministro Jebali abbia subito dichiarato che “l’assassinio di Belaid ha una matrice politica e soprattutto è un assassinio della rivoluzione tunisina”. Parole che non sono bastate finora a sedare gli animi, visto che a Sousse come a Gafsa alcune sedi di Ennahda sono state prese d’assalto e date alle fiamme.

Anche il presidente dell’Assemblea Moncef Marzouki, da Strasburgo, ha espresso parole di condanna per quanto accaduto, e ha annullato il suo viaggio in Egitto, dove avrebbe dovuto partecipare al summit dell’Organizzazione della Cooperazione islamica.

La crisi di legittimazione che sta vivendo Ennahda ha cominciato ad emergere ben prima delle ultime ore, quando sono partiti i colloqui del primo ministro Hamadi Jebali con le forze politiche per provare a formare una coalizione di governo più ampia, senza successo. Più volte da Ghannouchi è stata rilanciata l’idea, ma di fatto davanti alle richieste di nuovi incarichi di governo da parte delle altre formazioni c’è sempre stato un passo indietro.

Un rimpasto atteso ormai da mesi, per una politica in stallo e una popolazione esasperata dalla constatazione che le condizioni economiche e sociali non sono poi cambiate in questi due anni, dopo la rivoluzione e la fine del potere di Ben Ali. Dove corruzione e clientelismo ricominciano ad emergere, segno che la nuova classe politica, stretta fra ideologia e necessità di governo, non ha del tutto abbandonato i vecchi e criticati standard pre-primavera.

Basti pensare al cosiddetto Sheratongate, lo scandalo che ha coinvolto il Ministro degli Esteri Rafik Abdessalam, genero di Ghannouchi, accusato di aver pagato con i soldi dello Stato i conti delle camere d’albergo per sé e per una misteriosa donna. Insomma, uso improprio del denaro pubblico e sospetto adulterio, che già di per sé ha causato non pochi malumori all’interno del partito che ha fatto dei principi islamici e della sobrietà morale i pilastri per la discussione politica.

Uno scoop, questo, messo a segno da una giovane blogger tunisina, Olfa Riahi, che è entrata in possesso delle ricevute dell’hotel, e come se non bastasse a far scoppiare un caso diplomatico, ha anche scoperto che il Ministro avrebbe ricevuto un milione di dollari dal Governo di Pechino e lo avrebbe versato direttamente sul conto del suo ministero senza passare dalla Tesoreria generale.

A Ennahda il compito non solo di difendere pubblicamente Abdessalam, ma anche si citare in tribunale la 29enne giornalista del web, scatenando una guerra giudiziaria fatta di “botta e risposta” fra le parti, fra accuse di diffamazione e indagini interne all’intero partito avviate da un collettivo di 25 avvocati.

Una vicenda che oltre a mettere in luce una sorta di nepotismo che i media hanno paragonato all’epoca di Ben Alì, è anche servita a misurare il grado di libertà di informazione che il paese ha raggiunto dal 2011 a oggi. Se è vero che la Riahi non è stata messa in carcere e ha potuto parlare con televisioni, radio e giornali, è altrettanto vero che le è stato imposto un divieto di lasciare il paese, e che rischia una condanna a due anni se dovesse essere ritenuta colpevole di calunnia.

Reporters sans Frontières ha deciso di seguire da vicino tutto l’iter dell’indagine, oltre a richiedere la revoca immediata del divieto di espatrio. L’associazione che si batte per la libertà di informazione ha segnalato come tutti i reati che vengono menzionati nella denuncia che il Ministro ha sporto nei confronti di Olfa Riahi siano soggetti al carcere.

“Non crediamo che i giornalisti debbano essere al di sopra della legge – ha commentato Cristophe Deloire, segretario di Rsf – ma che ci siano leggi adeguate per chi fa informazione, da non confondere con reati comuni. A tutela di chi fa dell’informazione un dovere e una missione”.

Nella foto: Chokri Belaid, leader del Mouvement des Patriotes Démocrates e esponente di spicco della coalizione del Fronte Popolare, in opposizione contro il governo di Ennahda

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