Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dalla crisi in atto sta nascendo il mito del controllo sulle frontiere, spiega Seyla Benhabib dell’Università di Yale. Ma è soltanto un’illusione. Di fatto gli Stati stanno sfuggendo agli obblighi loro imposti dal diritto europeo e internazionale. I migranti, dal canto loro, potrebbero invece contribuire a mantenere la pace tra le varie classi sociali.
Chi sono queste persone che stanno arrivando in Europa? Come dovremmo chiamarle?
Sulla terminologia è in atto un acceso dibattito, per stabilire se si debbano chiamare rifugiati oppure migranti. È gente che viene dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dall’Eritrea e dalla Libia. Sono tutti Paesi che versano in condizioni di guerra civile, come la Siria, o nei quali anche in fase post-bellica la situazione non si è ancora placata, come nel caso di Iraq, Afghanistan e Libia. Stando a quanto stabilito nella Convenzione sullo Status dei Rifugiati del 1951, gli individui che fuggono dal proprio Paese a causa di una qualsiasi forma di persecuzione, che si tratti di guerra civile o pericolo di vita per discriminazioni su basi etniche, religiose, ecc., sono da considerare rifugiati. Non si può non concordare sul fatto che in tutte le aree del mondo che ho citato la vita stessa di alcuni esseri umani sia in pericolo. Quindi abbiamo tutte le ragioni per chiamare queste persone “rifugiati”. Il motivo però di tutta la polemica che si registra nell’opinione pubblica europea rispetto alla differenza tra rifugiati e migranti si basa sulla teoria per cui non si avrebbero obblighi speciali di nessun tipo nei confronti dei migranti, mentre ce ne sono nei confronti dei rifugiati. Tuttavia, si può escludere a priori che alcuni degli individui che stanno arrivando siano anche in cerca di migliori opportunità economiche e di vita? No, non lo possiamo escludere.
Il confine tra rifugiato e migrante quindi è assai incerto…
Sì, ma il diritto internazionale ci impone di osservare tale distinzione. Eppure, mettiamo il caso che uno viva in Iraq, per esempio, o anche in Turchia, e non riesca a trovare lavoro perché è sunnita o sciita, o curdo o alawita, o che la sua azienda sia stata bombardata: nessuno lo starebbe minacciando di morte, ma questa persona si troverebbe comunque in uno stato di indigenza, di mancanza di possibilità. E allora cosa sarebbe? Un rifugiato o un migrante economico? Ecco quindi che ci troviamo un po’ in un circolo vizioso, per cui il diritto internazionale garantisce protezione ai rifugiati e non ai migranti, ma il fenomeno a cui assistiamo – non solo in Europa ma in generale in tutto il mondo – è che tali categorie non sono in grado di circoscrivere in modo adeguato e univoco la realtà.
Ritiene che alcuni politici europei (o alcune élite politiche dell’UE) stiano deliberatamente approfittando dell’ambiguità di tali categorie, che trattino i rifugiati come migranti economici usando tale definizione come alibi per giustificare il proprio “impossibilismo”?
Nella maniera più assoluta. Mi piace il termine “impossibilismo”. E un ulteriore concetto che si potrebbe adottare in tale contesto è quello della creazione artificiosa di uno “stato di eccezione”, come è successo in Ungheria. Queste categorie vengono sfruttate dagli Stati per sfuggire agli obblighi loro imposti dal diritto europeo e internazionale. In Paesi come l’Ungheria, così come in Francia, nel Regno Unito e – per quanto forse in misura minore – in Germania, si è significativamente assistito all’emergere di gruppi di destra in opposizione al fenomeno dell’immigrazione e all’Unione Europea: sono moltissime le forze che stanno approfittando di questo stato d’animo. Non c’è dubbio, la tragica condizione dei rifugiati si sta trasformando in una sorta di ping pong all’interno dell’arena politica. Solo che quando si inizia a fare giochini politici con la vita di queste persone, si rischia di dare carta bianca ai gruppi che vogliono attaccarle. Migranti e rifugiati diventano gli “altri”, gli “indesiderati”: per parafrasare Agamben, restano confinati a uno stato di eccezione, senza nessuno che li protegga, e si trasformano quindi in possibili prede di potenziali attacchi.
Lei è una filosofa dell’etica, ma lasci che le faccia una domanda che riguarda il contesto economico: cosa ne pensa, da un punto di vista morale, delle polemiche in materia di economia nate su questo tema, sono giustificate o no?
Se si parla di migranti in antitesi a rifugiati, è necessario operare una distinzione tra il breve e il lungo termine. I migranti, nel complesso, sono giovani e caratterizzati da estrema mobilità. Contribuiscono a mandare avanti l’economia, e a lungo andare finiscono per dar più di quanto tolgano. Paesi come la Germania stanno registrando un significativo calo delle nascite, la loro popolazione sta invecchiando, quindi la decisione di aprire ai migranti è frutto di una scelta molto ben calcolata. Gli Stati Uniti sono forse un caso estremo, perché in America non abbiamo un mercato del lavoro regolamentato. L’Europa si gestisce diversamente, quindi in effetti il vero problema è il rapporto che intercorre tra salari dei migranti e salari degli autoctoni. Più mancano le normative in materia di salari, più pesante è la spinta al ribasso, per tutti. È una situazione che può essere modificata attuando una politica su scala europea, come è successo nel caso dei famosi “idraulici polacchi” che andavano a lavorare in Francia o nel Regno Unito.
Per quanto riguarda i rifugiati, invece, la questione è un po’ diversa. Un rifugiato è un qualcuno che chiede asilo. L’iter di richiesta di asilo in molti Paesi europei richiede dai due ai cinque anni. I rifugiati non hanno permessi di lavoro, quindi di fatto non sono propriamente migranti economici. Molti di loro beneficiano di aiuti su base locale da parte delle amministrazioni comunali. E ciò comporta una situazione alquanto spinosa, perché in effetti i rifugiati pesano sulle istituzioni locali pur essendo accolti a livello nazionale. Da tale stato di cose deriva una tensione tra inclusione su scala nazionale e integrazione su scala locale. I governi nazionali dovrebbero elaborare oculate politiche di integrazione dei rifugiati anche per il lasso di tempo in cui si attende che ne venga deliberato lo status.
Come obiezione alla tesi secondo cui le nazioni europee farebbero bene ad accogliere i migranti economici o i rifugiati allo scopo di colmare il proprio gap demografico, ci sarebbe da chiedersi come mai allora tre milioni di tedeschi siano disoccupati o per quale motivo si registrino tassi così elevati di disoccupazione giovanile in Grecia e Spagna.
In qualunque mercato del lavoro, esistono nicchie che non vengono colmate dalle classi di lavoratori autoctoni. Per qualche motivo ci sono alcune tipologie di lavoro che vengono svolte solo dai migranti. Le pulizie rappresentano l’esempio forse più calzante. Per la mia esperienza di residente negli Stati Uniti, attualmente le tate sono più frequentemente donne centroamericane che non afroamericane. Da cosa dipende? Per rifarmi a una teoria post-marxista, ritengo che il fenomeno della migrazione economica costituisca parte integrante della pace nazionale che le varie classi sociali sono riuscite a raggiungere tra loro nelle economie industriali più avanzate. A quanto pare un disoccupato tedesco o polacco non accetterà mai alcuni lavori che invece un iracheno o un afgano sarebbe disposto a fare. Dunque esiste nel mercato del lavoro una sorta di strana segmentazione che passa per le specificità etniche e nazionali. Stando così le cose, i migranti stanno rubando il lavoro agli autoctoni, o stanno piuttosto contribuendo a mantenere la pace tra le diverse classi sociali?
Perché si ha paura dell’altro da sé? Perché alcuni reagiscono come gli islandesi, che hanno volontariamente invitato nel loro Paese migliaia di rifugiati, e altri invece come la Slovacchia, che continua a insistere sul volerne accettare solo poche centinaia?
Paesi come la Slovacchia e l’Ungheria sono piccole nazioni nel cuore dell’Europa che temono di perdere la propria identità. Il caso dell’Islanda però è ancora più eclatante, perché anche quella, come l’Ungheria e la Slovacchia, è una nazione caratterizzata da grandissima omogeneità. Forse gli islandesi stanno cercando in prima battuta di ampliare la propria consapevolezza di sé: cosa vuol dire essere cittadino islandese per uno che è originario della Libia, o dell’Afghanistan? Alcune nazioni come la Svezia e la Norvegia, anch’esse parecchio omogenee, sono riuscite a crearsi un’identità post-nazionale multiculturale. Altre, come la Danimarca, sono sulla difensiva come la Slovacchia. Non credo che sia possibile spiegare il fenomeno in modo univoco.
Ma perché l’omogeneità è così importante per i Paesi avanzati? Il welfare state ha iniziato a tramontare con l’arrivo dei migranti.
Non credo. A mio avviso il rapporto tra welfare state, omogeneità nazionale e immigrazione non è un gioco a somma zero. Australia e Canada sono Stati di immigrazione eppure hanno un welfare. In Paesi a forte welfare come la Germania, la Svezia o la Norvegia, vediamo oggi come se non si riescono ad assorbire le fasce di lavoratori più giovani, ci si ritrova il problema di non sapere chi pagherà per le pensioni degli anziani. Una forza lavoro giovane è il prerequisito indispensabile perché il welfare state vada avanti e prosperi. Ecco perché alcuni Paesi aprono all’immigrazione e altri no.
Perché nazioni ricche come il Qatar, l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo non vogliono accettare rifugiati?
Non sono tra i Paesi firmatari della Convenzione sui Rifugiati. Il Qatar è un caso particolarmente interessante perché è una nazione molto ricca che dà lavoro a immigrati dal Pakistan, dal Bangladesh, dalla Thailandia, dall’Indonesia e non solo, che lavorano in condizioni di semischiavitù. Malgrado ciò, non accoglie i cugini siriani. La Turchia, d’altro canto, ha invece accolto due milioni e mezzo di profughi siriani, una cifra enorme. Ovviamente in questa scelta c’è anche una componente di realpolitik, dal momento che il presidente Erdoğan spera così facendo di influenzare il corso della politica siriana. Tuttavia, resta comunque un numero straordinario. Anche il Libano e la Giordania hanno accettato tra il milione e il milione e mezzo di rifugiati ciascuno, quindi il Qatar e gli altri Paesi del Golfo rappresentano in questo senso un po’ un fallimento dal punto di vista morale.
E che ne pensa delle responsabilità di nazioni che hanno avuto un coinvolgimento diretto nei conflitti in Siria, Iraq o Afghanistan?
Mi irrita il fatto che gli Stati Uniti abbiano avuto un coinvolgimento militare diretto in Siria, Afghanistan e Iraq. Dal punto di vista morale, se si ha una responsabilità causale nella creazione di certe condizioni, si ha anche il dovere di accettare alcune conseguenze delle proprie azioni. Stati Uniti, Regno Unito, Francia sono tutti Paesi che in un modo o nell’altro hanno ancora un coinvolgimento militare attivo in quelle regioni, pertanto hanno delle responsabilità nei confronti del problema dei rifugiati. Sono molto delusa dalla reazione degli Stati Uniti e dal comportamento delle Nazioni Unite. Credo che questo non debba essere un fardello solo per l’Europa, e che non sia tutta del Vecchio Continente la responsabilità della crisi in atto. Tutte le nazioni che hanno interessi nella regione, che sono coinvolte nel conflitto, hanno il dovere di sedersi al tavolo dei negoziati.
Anche la Russia ha interessi in Siria, e forse addirittura una presenza militare nel Paese…
Non so molto della politica russa in materia di migranti o rifugiati, ma tutti sappiamo che la Russia ha avuto un’influenza pazzesca in Siria e anche in Afghanistan, per moltissimi anni. Torniamo però un attimo a parlare degli Stati Uniti. L’America ha la fortuna di avere l’oceano tra sé e i rifugiati, quindi al momento non ha nessuna politica e non concede molti visti ai profughi. L’amministrazione Obama ha dichiarato che accoglierà 10 mila rifugiati ma la cifra dovrebbe essere più vicina ai 100 mila, almeno, se gli usa volessero davvero rispettare gli obblighi morali che hanno nei confronti di tali Paesi.
Nella sua riflessione lei parla di confini più flessibili, o meglio di confini porosi, per usare la sua definizione. Crede che sia questo il fenomeno a cui stiamo attualmente assistendo?
È chiaro che il sistema istituzionale e quello burocratico non riescono a gestire le dimensioni del problema. Se i confini sono porosi, per quale motivo ai rifugiati che vogliono raggiungere la Germania non viene garantito l’accesso? Stando a quanto stabilito nella Convenzione di Dublino, ai rifugiati dovrebbe essere garantito asilo nel primo Paese con cui entrano in contatto. Ovviamente quel trattato va rinegoziato. I confini porosi sono l’unica via praticabile ai fini di una coesistenza tra nazioni, ma ora stiamo attraversando una fase di crisi che genera – o tenta di generare – il mito del controllo delle frontiere. Ma è solo un’illusione.
Che differenza c’è tra confini porosi e confini aperti?
Come possiamo avere le frontiere aperte se non abbiamo uno Stato mondiale? Nessuno di noi vuole uno Stato mondiale, perché non crediamo che riuscirebbe a garantire un autogoverno democratico. Quella dei confini porosi è quindi una teoria che riconosce il diritto morale e giuridico degli esseri umani di attraversare le frontiere, ma al tempo stesso stabilisce che esiste una pubblica autorità responsabile per il territorio occupato dalla popolazione residente. Ci rendiamo oggi sempre più conto di come gli Stati-nazione da soli non siano più quella pubblica autorità.
Oggi, in un contesto di modernità liquida, ci affidiamo a definizioni fluide di sovranità popolare e confini. Ritiene che si possa andare anche oltre? Potrebbe essere solo l’inizio di un processo per cui non più migliaia, ma milioni di rifugiati potrebbero da qui a poco approdare sulle coste dell’“isola” Europa?
Credo che il linguaggio della migrazione di massa, dell’invasione, dia adito a terminologie moralmente e politicamente capziose che generano paura, e la paura non ci permette di considerare razionalmente, serenamente e onestamente la situazione che stiamo vivendo. A mio avviso è chiaro che la soluzione che va ricercata sia quella dell’attuazione di un serio sforzo di coordinamento a livello politico regionale che risolva o almeno tenti di risolvere il problema dell’instabilità in Medio Oriente. Nessuno vuol essere un profugo. La gente non mette i propri figli su un barcone e se ne sta lì a guardarli morire. Penso che dovremmo avere un po’ di comprensione per ciò che questa gente sta passando, e che i politici abbiano il dovere di non lasciarsi andare a questo linguaggio esasperato.
A partire da quali basi pensa che si possa stabilizzare e migliorare la situazione nelle aree critiche? Il coinvolgimento dei Paesi occidentali in Iraq ha innescato il caos nell’intera regione e il presidente Obama non ha intenzione di intervenire in Siria.
È stato un errore politico madornale. Per me qualcosa andava fatto. Non necessariamente ricorrendo a truppe americane sul campo, ma almeno cercando di negoziare, di convincere i russi a sedersi al tavolo delle trattative. Per la Siria si verificherà qualcosa di simile a quanto accaduto per l’Iran. Negli Stati Uniti è in corso una campagna presidenziale, ed è una campagna orribile, quindi non mi aspetto sviluppi a breve, ma il non aver provato a fare qualcosa per la situazione di instabilità in Siria è stato un fiasco da parte dell’amministrazione Obama.
Ritiene che Donald Trump esprima l’opinione del cittadino americano medio sul tema dei rifugiati?
L’America sta attraversando un periodo di grave insoddisfazione nei confronti dell’establishment politico. Donald Trump rappresenta un qualcosa di insolito, ecco perché il Partito Repubblicano appare così confuso, perché non sa come regolarsi con questa specie di linguaggio nativista che Trump chiama in causa. Donald Trump incarna una posizione che è molto più simile al nazionalismo antirifugiati europeo di destra che non a qualsiasi altro orientamento si sia finora mai registrato negli Stati Uniti.
Traduzione di Chiara Rizzo
La versione originale in inglese di questo articolo è pubblicata da Krytyka polityczna international edition, 21 settembre 2015 e successivamente su Eurozine.
© Slawomir Sierakowski, Seyla Benhabib / Krytyka polityczna
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La versione inglese è disponibile anche su www.resetdoc.org