Il Libano dei rifugiati siriani,
dove la guerra attraversa i confini

Da Reset-Dialogues on Civilizations

I siriani che hanno trovato rifugio a Deir Kanoun Ras El Ain, vicino a Tiro, arrivano da Aleppo, città svuotata (un terzo degli abitanti è fuggito) da cinque anni di conflitto. Vivono in garage lungo una strada che si inoltra nella campagna del Sud del Libano, tra i campi coltivati che precedono il litorale. In questi stanzoni bui, umidi e freddissimi d’inverno, si sono sistemate almeno quattro famiglie, piuttosto numerose, che sono arrivate in Libano già da alcuni anni. Della Siria ricordano come “si stava bene” prima della guerra, le case “saccheggiate, ma ancora in piedi” che li aspettano quando il conflitto finirà e torneranno ad Aleppo, dove hanno lasciato fratelli, genitori e amici. Di politica, di Assad, dei ribelli, non parlano: “Stavamo bene, poi tutto è cambiato e non sappiamo perché, ma ce ne siamo dovuti andare”, spiegano gli uomini.

In queste rimesse adibite a casa, che costano circa cento dollari al mese, non manca mai la televisione, ma le finestre non hanno ante e se piove entra l’acqua, gli impianti elettrici sono pericolosi e si dorme tutti insieme in un’unica stanza che una tenda divide dalla cucina. Sono i rifugi collettivi sparsi per tutto il Paese, in circa 1.400 tra città e villaggi, e chi ci vive può addirittura ritenersi fortunato, perché in tanti invece si sono sistemati nei 1.900 cosiddetti insediamenti informali (ITS), cioè in tendopoli spuntate nelle campagne e nelle periferie libanesi, soprattutto nella Valle della Bekaa, che ospitano circa 500mila persone.

La guerra attraversa i confini
Nella zona nord-occidentale della strategica Valle della Bekaa il conflitto siriano sconfina in territorio libanese. Sulla catena montuosa dell’Antilibano, che divide i due Paesi, si stima la presenza di circa tremila miliziani affiliati all’Isis o al Fronte al Nusra, che ingaggiano scontri con l’esercito libanese e gli uomini di Hezbollah. Nelle scorse settimane sei miliziani e un soldato sono morti nella città di Ras Baalbek. Il comandante delle forze armate libanesi, generale Jean Kahwagi, ha promesso che stanerà gli estremisti ovunque si trovino e che gli impedirà di costituire uno Stato islamico in territorio libanese. La Bekaa fa gola ai jihadisti, è un territorio ricco di risorse idriche (qui scorrono i due principali fiumi libanesi, Litani e Oronte) e agricole (anche quella illegale di oppio), ed è anche un territorio difficilmente espugnabile, ideale per ogni tipo di contrabbando e traffico illegale.

Nel sud, tra i rifugiati siriani
Al Sud, regno del movimento sciita libanese Hezbollah, che combatte in Siria al fianco delle truppe del presidente Assad, la situazione è più tranquilla e anche la presenza di rifugiati è minore. A una decina di minuti da Deir Kanoun Ras El Ain c’è Hennye, altra zona di Tiro dove si sono rifugiati i siriani. Un’intera palazzina, senza infissi, dai garage all’ultimo piano, è abitata da circa 35 famiglie. Ma girando l’angolo del palazzo ci si trova davanti a un ITS, con una mezza dozzina di tende piantate nel fango. Bambini che scorrazzano tra fili di panni stesi ad asciugare e tante donne che escono dai rifugi per radunarsi davanti alla clinica mobile della Ong libanese Amel, che tutte le mattine fa il giro di questi insediamenti per fornire assistenza sanitaria ai rifugiati: circa mille consulti al mese. Abeer Ardat, l’assistente sociale, parla con le donne, si informa sulla loro salute e su quella dei figli, mentre il medico fa le visite nella clinica mobile. “Non parliamo soltanto della loro salute fisica”, spiega Abeer, “ma anche dei tanti problemi che devono affrontare in Libano. Alcune di loro sono sole, i mariti sono rimasti in Siria (forse si sono uniti ai gruppi combattenti o continuano a lavorare lì, ndr), oppure sono partiti in cerca di lavoro. E ci sono diversi casi di famiglie che mandano i figli, anche di dieci, undici anni, a lavorare. Il destino di alcune bambine è un matrimonio precoce e l’unica cosa che possiamo fare è far capire alle famiglie i rischi di una scelta di questo tipo”.

Questi sono i siriani più poveri, che vivono di aiuti umanitari e che restano bloccati in un Paese che trema all’idea di aprire campi di accoglienza, memore dei campi profughi palestinesi aperti quasi settant’anni fa e mai più chiusi. D’altronde, i campi non sono una soluzione e non trovano ampio consenso tra i libanesi, tra i quali è ancora vivo il ricordo della guerra civile, degli scontri e dei massacri nei campi, della quasi trentennale occupazione siriana. Non mancano tensioni tra libanesi e siriani, e la convivenza è resa più difficile dalla crisi economica. C’è chi accusa i siriani di “rubare” il lavoro ai libanesi, accettando salari più bassi, e di aver fatto aumentare i prezzi degli affitti.
La fine della guerra in Siria non sembra vicina e anche se si deponessero le armi a breve, il rientro dei rifugiati in un Paese distrutto non sarebbe certo immediato. La crisi siriana ha provocato lo sfollamento di metà della popolazione (circa 23 milioni di abitanti prima della guerra) e la fuga all’estero di quasi cinque milioni di persone. Una realtà con cui il Libano, assieme agli altri Paesi che hanno ricevuto i flussi più consistenti di rifugiati (Turchia, Giordania, Egitto), dovrà fare i conti ancora a lungo.

La “situazione esplosiva” del Libano
In Libano l’impatto dell’arrivo di circa 1.5 milioni di siriani (quelli registrati dall’Unhcr sono 1.1 milioni) in un Paese con circa quattro milioni di abitanti, con grossi problemi economici e politici, ha determinato una “situazione esplosiva”, spiega Kamel Mohanna, presidente e fondatore di Amel, Ong nata nel 1979 e che quest’anno vuole candidarsi al Premio Nobel per la Pace. “Siamo abituati alle emergenze, sono quarant’anni che viviamo situazioni di emergenza, ma adesso che i siriani sono in Libano da cinque anni (l’inizio ufficiale è il 15 marzo 2011, ndr), e probabilmente ci resteranno almeno altri cinque anni, non possiamo più parlare di prima emergenza. Siamo entrati nella fase dello sviluppo”. Non si tratta più di fornire la prima assistenza, ma di sostenere una popolazione che vive da anni nel Paese. Sanità, istruzione, ambiente, sicurezza economica e sociale. Sono questi i punti critici dell’emergenza dei rifugiati siriani nel Paese dei cedri, dice Mohanna: “Al primo posto c’è l’istruzione: è questo il problema principale da affrontare. Abbiamo 400mila siriani in età scolare e 280mila libanesi in età scolare, ma solo 200mila siriani frequentano la scuola. Quale sarà il futuro di questa generazione senza istruzione quando tornerà in Siria, o anche qui in Libano? Forse sarà Daesh, con i suoi soldi, ad attirare questi ragazzi”.
Il capitolo sanità è altrettanto problematico. Il sistema libanese non è sufficiente ad assorbire una domanda aumentata di colpo negli ultimi cinque anni, e per i siriani l’accesso alla costosa sanità libanese, che nel loro Paese era gratuita, è talvolta impossibile.

L’Unhcr e altre organizzazioni danno contributi economici per gli affitti, schizzati alle stelle con l’arrivo dei profughi, e per le cure mediche, ma i fondi scarseggiano. “C’è una certa stanchezza dei donatori, le crisi sono tante e grandi, e arrivano pochi soldi per affrontarle”, continua Mohanna. “Ci vorrebbe un piano nazionale, concordato tra governo, municipi e società civile, e una collaborazione più efficace tra Ong internazionali e Ong locali che sono ben radicate nei territori. E ovviamente ci vorrebbe più solidarietà internazionale, mentre si cerca una soluzione politica. Sono deluso dalla posizione dell’Europa che ha una tradizione di solidarietà e, invece, oggi dobbiamo parlare di fortress Europe”.

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