Da Reset Dialogues on Civilizations
Il cammino della Colombia verso la pace è lento e sdrucciolevole. La batosta ricevuta dal presidente Juan Manuel Santos nell’autunno scorso, quando la maggioranza dei colombiani rigettò tramite referendum gli accordi dell’Havana firmati con la guerriglia delle Farc, era stata solo la prima, pesante, insidia incontrata. L’ultima è stata, a metà maggio, una sentenza della Corte Costituzionale che limita la capacità del governo di approvare in tempi rapidi le leggi necessarie a implementare le 300 pagine degli accordi. Nel mezzo, una serie di ritardi logistici, cavilli amministrativi e una situazione di bellicosità politica e crescente insicurezza che contribuiscono a mettere in dubbio che la pace si materializzerà davvero in questo Paese che ha già pagato con 225mila morti, 45mila desaparecidos e 7 milioni di sfollati i suoi 52 anni di guerra civile.
Del risultato referendario, di fatto, il presidente Santos se n’è infischiato. Ha tirato dritto, per altre vie: portando il testo degli accordi di pace in Parlamento affinché ottenesse la dovuta legittimazione. Dopo aver subito una serie di modifiche richieste dall’opposizione, il testo è stato quindi approvato. E la determinazione di Santos è stata premiata con un Nobel per la Pace. Determinazione che però ora non basta più. Anzitutto, perché per implementare un accordo di pace serve più di uomo: serve uno Stato. Un’amministrazione statale con la sua burocrazia e la sua capacità logistica. E l’amministrazione colombiana ha evidentemente sovrastimato la sua snellezza e abilità operativa, visto che i lavori di adeguamento delle 26 Zone Transitorie di Normalizzazione, in cui da febbraio sono concentrate le Farc per iniziare la trasformazione da gruppo armato a partito politico, hanno subito ritardi terribili.
Secondo il cronogramma accordato, i 7000 ribelli confluiti in queste zone di smobilitazione e disarmo avrebbero dovuto lasciarle il 1° giugno per ritornare alla vita civile. Ma i ritardi accumulati dal governo nella creazione di refettori, sale di formazione, ambulatori e altre infrastrutture per i guerriglieri sono stati tanti e tali che hanno provocato a cascata un rallentamento del processo di consegna graduale delle armi da parte delle Farc alle Nazioni Unite. Tanto che Farc, governo e Onu sono state costrette a prorogare di tre settimane la data finale del disarmo e di due mesi l’esistenza delle Zone Transitorie di Normalizzazione.
Del resto, la situazione della sicurezza nel Paese è tale che i guerriglieri nutrono più di qualche timore di fronte alla prospettiva di dover lasciare queste zone monitorate dall’Onu. Se infatti il cessate il fuoco fra esercito e Farc ha contribuito a fare del 2016 l’anno con il più basso tasso di omicidi degli ultimi 40 anni (12mila casi), un tipo di assassinio in particolare è aumentato: quello contro leader sociali e difensori dei diritti umani. Dalla firma degli accordi di pace il 24 novembre scorso, ogni quattro giorno è stato assassinato un attivista. Un aumento notevole che, secondo alcuni esperti, dimostrerebbe come in Colombia ci siano forze che si oppongono al processo di pace colpendo chi cerca di promuoverla. Inoltre, una discreta parte di questi omicidi avviene nelle aree che erano controllate dalle Farc e che oggi stanno registrando una situazione d’insicurezza crescente. Bande criminali, gruppi paramilitari, dissidenti delle Farc, clan del narcotraffico e i ribelli dell’Esercito di Liberazione Nazionale stanno infatti occupando alcune di queste aree, nel tentativo di accaparrarsi la fetta di business criminale lasciato dalle Farc. Ovvero dedicandosi a estorsioni, traffico di cocaina e miniere illegali. Il ministero della Difesa sostiene di aver dispiegato 65mila uomini delle forze armate e di polizia nei territori ex-Farc. Ma per ora gli abitanti di regioni come Chocò, Nariño, Putumayo e Guaviare vivono ancora nella paura e nella violenza, invece che in pace.
Come evidenziato anche dal rapporto “Como va la paz” del think tank Paz y Reconcilación, la lenta risposta dello Stato nell’implementare gli accordi sta creando incertezza nella base delle Farc e nella società in generale, che inizia a dubitare della reale capacità del governo di onorare la parola data all’Havana. Un’incertezza accresciuta parecchio dalla decisione della Corte Costituzionale che a maggio ha azzoppato il fast track, il procedimento di approvazione rapida delle leggi connesse all’accordo di pace, dando al Parlamento la possibilità di modificarle. Fra l’altro, il processo legislativo era già piuttosto lento: delle 27 iniziative contemplate dal governo ne sono state presentate 10 sinora, di cui solo 4 sono state approvate. Ora, la sentenza della Corte Costituzionale rischia di frenare ulteriormente il processo e di offrire un aiuto a partiti come il Centro Democratico dell’ex presidente Alvaro Uribe che vorrebbero sabotare l’attuale accordo di pace.
Su questo quadro complicato stanno arrivando infine anche le nubi della imminente campagna elettorale. Nella primavera del 2018 sono previste sia elezioni legislative che presidenziali. E l’esito elettorale dipenderà moltissimo dal successo (o insuccesso) dell’implementazione degli accordi di pace.
“Il cammino verso la pace è irreversibile”, sostengono ottimisti sia il presidente Santos che il leader delle Farc Londono. Quel che è certo è che, nonostante sgambetti e lentezze, in questi mesi sono stati raggiunti traguardi impensabili fino a pochi anni fa. La dissidenza all’interno delle Farc è stata assai più limitata del previsto: sono poche centinaia i guerriglieri che hanno deciso di restare nella selva a guerreggiare e trafficare. Mentre, grazie anche alla stretta gerarchia che vige nel movimento, oltre 7000 ribelli sono confluiti come da accordi nelle Zone Transitorie di Normalizzazione e hanno consegnato le loro armi. Inoltre, alcuni di loro stanno avendo figli per la prima volta nella storia dell’organizzazione armata, che per mezzo secolo aveva imposto misure anti-concezionali alle guerrigliere. Infine le Farc, fino a un anno fa il principale attore del narcotraffico colombiano, stanno ora accompagnando funzionari del governo dalle comunità rurali per convincerle ad abbandonare la coca e sostituirla con coltivazioni lecite, in cambio di benefici economici, assistenza tecnica, infrastrutture. La strada per la pace è sì tortuosa, ma la volontà di percorrerla è – per ora – robusta.
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