Mali, i nuovi scenari tra Francia, Algeria e Qatar

Da Reset-Dialogues on Civilizations

“Non diventeremo un nuovo Afghanistan”. Nella frase pronunciata da Habib Ben Yahia, segretario generale dell’Unione del Maghreb Arabo sono racchiusi tutti i timori per quanto sta accadendo in Mali. Una crisi che si allontana dall’idea di “guerra lampo” e che minaccia di diventare un pantano per tutto il Nord Africa, il Sahara e di riflesso l’Europa.

I primi “effetti” dell’intervento francese si sono visti già con il sequestro di centinaia di lavoratori, dei quali 41 stranieri e il resto algerini, dell’impianto di estrazione di gas Bp, Statoil e Sonatrach di Tigantourine in Algeria, non lontano dal confine libico. Un’operazione rivendicata da Moktar Belmoktar, leader della jihad del Sahara, come risposta al dispiegamento di forze inviate dall’Eliseo nell’Azawad.

Dal 1992 al 2012 il Mali ha rappresentato un esempio di stabilità nell’area, seppure istituzionalmente debole, soprattutto nella parte Nord, dove oggi le rivendicazioni indipendentiste tuareg sono state soppiantate dalle infiltrazioni jihadiste. L’area settentrionale, con un’economia al collasso e una forte emigrazione dovuta alla mancanza di prospettive economiche, è diventata ben presto anche uno degli snodi del narcotraffico internazionale. Eppure proprio sul Mali contavano anche gli Stati Uniti che ne avevano fatto il centro della sicurezza regionale, con la Pan Sahel Initiative, nata nel 2002 e poi sviluppata nel 2005 in Trans Sahara Counterterrorism Partnership, un progetto pluriennale di sostegno alla lotta al terrorismo, inclusa l’assistenza militare e diplomatica.

L’insurrezione tuareg comincia esattamente un anno fa, in gennaio. Il presidente Amadou Toumani Touré tenta la strada della mediazione e invia il suo Ministro responsabile del Programma speciale per il Nord a parlare con i dirigenti del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, ai quali viene anche proposto un ministero ad hoc, oltre alla possibilità per i combattenti di entrare negli alti ranghi dell’esercito. Le proposte vengono rifiutate, ma la strategia dello Stato scatena il malcontento dell’esercito, già demotivato oltre che impreparato a combattere. Il 17 gennaio, con l’attacco contro la base militare di Menàka da parte degli insorti scoppia il conflitto armato, ma la situazione precipita il 24 gennaio ad Aguel’hoc, quando diventa chiaro che a fianco dell’ Mnla si sono schierati anche i salafiti di Ansar Al Din e i qaidisti di Abdelkarim Le Targui, che non esitano a uccidere i soldati dell’esercito regolare, per poi mostrarli pubblicamente come monito. Da allora cominciano le prime defezioni fra i militari, mentre nella capitale Bamako le proteste coinvolgono anche la società civile.

Il 18 marzo una grande manifestazione vede scendere in piazza, insieme, i contadini espulsi dalle loro terre e neocittadini ai margini, ma anche giornalisti e poliziotti. Il Ministro della Difesa tre giorni dopo viene preso a sassate durante una visita ai soldati del campo di Kati. Tre giorni dopo Touré termina il suo governo a seguito di un colpo di stato militare, che la maggioranza dei maliani sembra accogliere con favore.

Eroe nazionale che aveva condotto l’insurrezione del 1991 contro il dittatore Moussa Traorè, Amadou Toumani Touré aveva evitato di confiscare il potere, non presentandosi alle elezioni dell’anno successivo, ed era poi stato eletto nel 2002, e riconfermato nel 2007. Poco prima del golpe aveva dichiarato che non si sarebbe ripresentato alle elezioni del 2012, previste a breve.

Il 6 aprile il Nord si è separato dal resto del paese, ma in poco tempo i tuareg hanno perso il controllo a vantaggio degli jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb, e del Mujao, il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa Occidentale, così l’area ha perso anche il tacito appoggio della Francia, che fino ad allora aveva mantenuto dei legami con il Movimento indipendentista. A Timbuctù, che insieme a Gao e Kidal forma la parte settentrionale del Mali, sono stati distrutti i mausolei di Sidi Mahmoud Ben Amar, Sidi El Mokhtar e Alfa Miya, considerati il simbolo dell’idolatria sufista in opposizione alla shari’a. La città è stata svuotata, ed è piombata in un periodo di oscurantismo, simile a quello di Kabul durante il governo taliban.

Le origini della crisi maliana possono essere ricercate all’interno del paese, fra i meccanismi di corruzione del sistema istituzionale e lo stato di abbandono istituzionale per la zona del Sahara, considerata dallo stesso ex presidente competenza de facto dell’Algeria, ma anche all’esterno, e in particolare nella fine dei vecchi equilibri in Libia, che nel 2011 ha portato alcuni leader tuareg che vi risiedevano a rientrare in Mali, come Ag Najem, diventato poi capo di Stato Maggiore del Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad.

Nel frattempo però si sta affacciando lo spettro di un’altra gravissima crisi umanitaria. Secondo i dati raccolti dall’Unhcr, in Niger, soltanto nelle prime ventiquattr’ore dall’attacco francese, sono arrivati 450 maliani, che hanno raggiunto il campo profughi di Mangaize. Altre 309 persone si sono dirette in Burkina Faso, 471 in Mauritania. Il 90% sono donne e bambini. All’interno del paese, almeno 50mila sfollati del Nord hanno trovato rifugio a Bamako.

Una situazione che aggrava quella accertata alla fine del 2012: 144 mila e 500 rifugiati nei paesi della regione, dei quali 54mila solo in Mauritania.

Lo scorso 12 ottobre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la Risoluzione 2071, che di fatto ha aperto la strada all’intervento militare promosso dalla Francia, con il benestare di Washington. Gli interessi di Parigi nella regione sono molteplici, a livello simbolico ma soprattutto economico, in termini di accesso alle risorse energetiche e minerarie. Lo scopo degli Stati Uniti, che hanno incluso il Sahel nella lotta al terrorismo globale, è quello di creare una coalizione armata in grado di riportare tutto il paese sotto il controllo di Bamako, magari con un nuovo governo più capace dell’attuale guida golpista.

Guardando al Mali, Francia e Usa guardano anche all’Algeria, principale potenza regionale dalla cui stabilità l’Occidente dipende ancora di più dopo le primavere arabe e gli stravolgimenti a livello politico che ne sono seguiti.

Ad avere gli occhi puntati sul Mali è anche il Qatar, che dopo aver sostenuto i gruppi islamisti nella conquista del Nord, non ha visto certo con favore l’intervento militare voluto da Hollande. Il motivo è esattamente il contrario di quello franco-americano: destabilizzare l’Algeria per ridimensionarne il ruolo di primo piano nel Maghreb.

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  1. Ottimo articolo.
    Non escluderei da questa eccellente panoramica geopolitica il Niger, il cui uranio rappresenta per la Francia l’ingrediente numero uno per il funzionamento delle centrali nucleari dei cugini d’oltralpe.

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