A due settimane dal cessate il fuoco che ha messo fine alla Guerra dei dodici giorni tra Israele e Iran, le tensioni regionali restano alte e le ripercussioni interne al Paese continuano a farsi sentire. Mentre il conflitto ha brevemente compattato una società politicamente divisa, ha anche messo in luce fratture strutturali profonde. La maggior parte degli iraniani ha respinto l’idea di un intervento straniero, riaffermando uno scetticismo radicato nella memoria storica e nell’esperienza nazionale. Pur critici nei confronti del sistema, in molti sembravano convinti che un cambiamento reale e sostenibile potesse emergere solo dall’interno.
Alla base di questa posizione ci sono almeno tre fattori chiave. Il primo è la memoria storica condivisa: pochi episodi sono impressi nell’immaginario collettivo quanto il colpo di Stato del 1953, sostenuto dalla Cia, che rovesciò il governo democraticamente eletto di Mohammed Mosaddegh. A questo si aggiungono le precedenti ingerenze russe e britanniche, che hanno lasciato segni profondi nella coscienza nazionale.
In secondo luogo, c’è sfiducia verso politiche calate dall’alto che ignorano le specificità del contesto nazionale. Il tentativo di Reza Shah, padre dell’ultimo Shah, di modernizzare la società iraniana vietando l’hijab in pubblico costrinse molte donne di estrazione tradizionale a ritirarsi dalla vita sociale. Paradossalmente, l’islamizzazione degli spazi pubblici seguita alla rivoluzione del 1979 ha in alcuni casi favorito l’accesso femminile a tali spazi, contribuendo al loro emancipazione. Nonostante le difficoltà economiche e la repressione, la società iraniana ha conosciuto trasformazioni profonde negli ultimi quarant’anni – un dato che non può essere ignorato da chi voglia analizzare la situazione attuale nella sua complessità. Il terzo fattore riguarda le crescenti tensioni interne – sul piano socio-economico, politico-ideologico ed etnico – che rischiano di precipitare in uno stato di guerra civile. Uno scenario del genere avrebbe conseguenze potenzialmente destabilizzanti non solo per l’Iran, ma per l’intero Medio Oriente.
Mobilità sociale post-rivoluzionaria
L’era successiva alla rivoluzione del 1979 ha portato con sé profonde trasformazioni sociali e demografiche. Mentre la narrazione del nuovo Stato si basava fortemente sull’islamizzazione della società, ciò andò di pari passo con un’enfasi sulla giustizia sociale, intesa soprattutto in termini socio-economici. Durante gli anni ’80 e i primi anni ’90, lo Stato ha svolto un ruolo centrale nella promozione del welfare, garantendo l’accesso all’istruzione e alla sanità. Forse il risultato più significativo della rivoluzione è stato proprio l’ampliamento delle opportunità educative, in particolare per le donne e le famiglie rurali, e sul fronte della pianificazione familiare. Il tasso di alfabetizzazione è salito dal 37 per cento nel 1976 all’86 per cento nel 2016 – un aumento molto più rapido della media globale, che è passata dal 66 per cento all’86 per cento negli stessi anni (dati: Banca Mondiale). Anche l’accesso all’università ha seguito un andamento simile: dal 3 per cento nel 1971 al 72 per cento nel 2015, a fronte di una media globale mondiale cresciuta dal 10 per cento al 37 per cento. In una società demograficamente giovane – quasi il 60 per cento della popolazione ha meno di 39 anni – questi cambiamenti hanno avuto effetti dirompenti. Per un certo periodo hanno alimentato un senso diffuso di progresso e inclusione, ma hanno anche modificato la visione del futuro e le aspettative della società.
Il nuovo assetto “religioso” delle politiche e degli spazi pubblici riuscì a raggiungere anche le famiglie più povere e tradizionaliste, che erano state più diffidenti nei confronti della “rivoluzione bianca” dello Scià negli anni ‘60. Per la prima volta, molte famiglie tradizionali si sentirono a proprio agio nel permettere alle figlie di frequentare l’università, iscriversi a palestre e centri culturali, o addirittura trasferirsi a Teheran per studiare – ora percepita come libera dall’influenza occidentale. Questo cambiamento generò una nuova base sociale di giovani istruiti e emancipati – in particolare di donne – che iniziarono a mettere in discussione le strutture patriarcali precedenti, soprattutto una volta rientrati nelle loro comunità d’origine. Già nel 2005, le donne costituivano il 65 per cento degli studenti universitari in Iran, superando i loro coetanei. In un certo senso, le proteste esplose nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini sono anche il frutto di quelle trasformazioni.
Questi sviluppi hanno anche posto le basi per una scena culturale vivace, nonostante le difficoltà economiche e la censura. Il cinema iraniano – con registi come Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf e Jafar Panahi – ha ottenuto riconoscimenti a livello internazionale. I gusti culturali mainstream stanno passando da una sete di occidentalizzazione a una ricerca più sfumata, che mescola eredità iraniana e influenze globali. A partire dalla fine degli anni ‘90, la scena dell’arte contemporanea ha avuto nuovo slancio, con oltre 80 gallerie attive nella sola Teheran. Nella capitale si tengono ogni giorno più di 40 spettacoli teatrali — senza contare quelli della scena underground. Quest’anno, a Teheran, è stata messa in scena una reinterpretazione della Divina Commedia di Dante Alighieri. Anche il settore editoriale ha conosciuto una fase di espansione. Nei numerosi club del libro, ci si confronta tanto su autori e artisti iraniani contemporanei quanto con Italo Calvino e gli ultimi romanzieri del New Yorker. L’espansione di queste reti culturali si è spesso sviluppata in parallelo rispetto ai centri culturali promossi dallo Stato. Alla censura sulla carta stampata si è risposto con il successo di podcast, canali Telegram e altri media alternativi.
È importante sottolineare che questi spazi culturali non sono confinati ai quartieri d’élite del nord della capitale: fioriscono nel cuore della città. Quartieri come Karimkhan e Iranshahr, lontani dalle zone più esclusive, stanno diventando poli di attrazione trasversali, capaci di coinvolgere pubblici di diversa estrazione sociale. Se è vero che la vita culturale si concentra prevalentemente a Teheran, sviluppi simili si registrano anche in città più piccole come Isfahan, Shiraz, Kashan e Qazvin.
Anche l’approccio alla religione è cambiato. Mentre la maggior parte delle società a maggioranza musulmana ha conosciuto, a partire dagli anni ’70, un processo di islamizzazione – fenomeno che non riguarda solo l’Islam ma si inserisce in un più ampio ritorno del religioso a livello globale, osservato da studiosi come Peter Berger e Jürgen Habermas – l’Iran è in controtendenza. Quarant’anni di governo clericale hanno forse consolidato una certa visione ufficiale della religione in una parte della società, ma lo hanno fatto al prezzo di perdere il consenso della maggioranza. Se alcuni sono diventati persino ostili alla religione, altri hanno intrapreso percorsi più spirituali e individualizzati, mettendo in discussione il ruolo della religione nella politica e nella sfera pubblica. Tra chi mantiene la propria religiosità, sono ormai diffusi i dibattiti su religione e femminismo, modernità e pluralismo. E non solo nella capitale, dove il femminismo islamico è discusso anche in università pubbliche come quella di Teheran, ma anche a Qom, uno dei principali centri dell’Islam sciita e forse la capitale religiosa del Paese.
Società frammentata: disuguaglianze crescenti, tensioni politiche e etnie
Eppure, nonostante queste trasformazioni radicali, le disuguaglianze socio-economica in Iran sono aumentate drammaticamente negli ultimi decenni. Dalla fine degli anni ’90, il Paese ha sperimentato una crescente liberalizzazione economica, un indebolimento delle politiche di welfare e il radicamento di una nuova élite. Dopo un iniziale rimescolamento della società, il divario tra i nuovi ricchi e i ceti più poveri – esacerbato da corruzione, sanzioni internazionali e cattiva gestione dello Stato – è diventato una delle fratture più visibili e dolorose nella società iraniana. Secondo la Banca Mondiale, l’inflazione ha raggiunto il 44,6 per cento nel 2023, e da allora è ulteriormente peggiorata.
Oggi, sebbene l’istruzione resti formalmente accessibile, ha perso efficacia come strumento di mobilità sociale. Molti iraniani istruiti si trovano disoccupati o costretti ad accettare lavori precari, mentre le famiglie più agiate si affidano alle reti clientelari per ottenere posizioni lavorative e vantaggi economici. Il risultato è che la promessa rivoluzionaria di una società più giusta appare sempre più disattesa, mentre il malcontento sociale cresce, soprattutto tra le giovani generazioni, escluse dai benefici di cui gode la ristretta élite post-rivoluzionaria.
La frustrazione accumulata si traduce in rabbia non solo verso le autorità e il sistema, ma anche verso la nuova élite ricca, spesso associata a un’ostentazione “occidentalizzata” fatta di feste in piscina e auto di lusso – come mostrano i post della pagina Instagram Rich kids of Tehran. Ironia della sorte, la stessa narrazione ufficiale si alimenta di questo risentimento, pur mantenendo sfumata la linea che separa il potere dal privilegio economico.
A tutto ciò si aggiunge una profonda frattura politica e ideologica tra i sostenitori del regime e i suoi oppositori. Mobilitazioni politiche come il Movimento Verde del 2009, le proteste del 2017 e quelle del 2022 dopo la morte di Mahsa Amini, hanno subito una dura repressione. Tuttavia, hanno dimostrato che il dissenso è vivo e attraversa classi sociali e generazioni differenti. Anche se la sfera pubblica è oggi più controllata rispetto all’epoca di Khatami, gli atti di resistenza si sono diffusi nella vita quotidiana. Oggi, è comune vedere donne senza velo per le strade di Teheran e in molte città più piccole – qualcosa che, fino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile.
La sfida dell’unità e del dissenso interno
Eppure lo Stato si trova oggi di fronte a una sfida inedita: le voci più forti di dissenso non stanno provengono dall’esilio né da opposizioni finanziate dall’estero, ma dall’interno del suo stesso sistema – da laureati nelle università iraniane, donne cresciute sotto la Repubblica Islamica e persino da familiari di alti esponenti religiosi e politici. Durante le proteste del 2022, è stata la stessa sorella della Guida Suprema Ali Khamenei a pubblicare una lettera aperta dove condannava la repressione delle manifestazioni.
Lungi dall’essere una struttura di potere monolitica, l’Iran post-rivoluzionario ha conosciuto un processo continuo di frammentazione e marginalizzazione all’interno delle élite. Attori provenienti dallo stesso sistema – e talvolta delle stesse famiglie al potere – sono diventati voci di critiche, talvolta interne (come nel caso di Khatami e Rafsanjani), talvolta incarcerate o costrette all’esilio (come Mousavi, Soroush, Kadivar e tanti altri).
Tuttavia, un dissenso così frammentato – che va dai laici liberali ai riformisti moderati fino a membri disillusi del clero – rende difficile una vera organizzazione politica coesa. Si crea così un paradosso: mentre il sistema attuale perde legittimità agli occhi di molti iraniani, un cambio di regime improvviso, senza un’alternativa chiara e strutturata, rischierebbe di precipitare il Paese nel caos.
A rendere il quadro ancora più complesso si aggiunge l’eterogeneità etnica del Paese, con rivendicazioni storiche e politiche ben distinte, oggi acuite dal contesto attuale. Queste divisioni – spesso marginalizzate o represse dal governo centrale – ostacolano la formazione di un fronte politico unito. I persiani rappresentano circa il 61 per cento della popolazione, affiancati da minoranze numericamente rilevanti che includono gli azeri (16 per cento), i curdi (10 per cento), i lori (6 per cento), oltre ad arabi, baluci e altri gruppi turcofoni (7 per cento).
La strada da seguire
Nel pieno dell’ultimo conflitto, un gruppo di intellettuali riformisti in esilio ha diffuso una dichiarazione congiunta dove proponeva cinque punti per il “salvataggio immediato dell’Iran”: cessate il fuoco; negoziati diretti con gli Stati Uniti; flessibilità sull’arricchimento dell’uranio; una revisione delle politiche statali, compreso il rilascio dei prigionieri politici e la garanzia della libertà di stampa; e un referendum per una riforma costituzionale.
Ma la realtà potrebbe rivelarsi più complessa di quanto sperato dai firmatari. Il cessate il fuoco resta fragile, mentre il conflitto ha acuito le polarizzazioni interne, anche in merito alla politica nucleare e ai rapporti con l’Occidente. Le crescenti preoccupazioni per la sicurezza potrebbero giustificare un aumento della repressione e del controllo. Al tempo stesso, l’instabilità economica e le incertezze legate alla guerra stanno aggravando le difficoltà quotidiane della popolazione e aumentando la tensione sociale.
Nonostante tutto, un cambiamento reale e duraturo in Iran non può essere imposto dall’esterno. Deve maturare dall’interno, attraverso un’evoluzione economica, culturale, sociale e politica, e questo richiede tempo. Il popolo iraniano ha mostrato una resilienza straordinaria: anni di rivoluzione, la guerra con l’Iraq, proteste, sanzioni hanno rafforzato la capacità di resistenza della popolazione. Il giorno dopo l’annuncio del cessate il fuoco, gli uffici e i negozi hanno riaperto, i teatri hanno ripreso le attività, i gruppi di ricerca sono tornati al lavoro. Ogni protesta ha incontrato una dura repressione, ma ha anche spostato un po’ più in là il confine del controllo esercitato dalle autorità. Forse il cambiamento più profondo sta avvenendo in silenzio, nei piccoli atti quotidiani di resistenza. È proprio questa resilienza, insieme alle trasformazioni sociali già in atto e al rischio di un’escalation delle tensioni interne, che rende chiaro come il cambiamento debba venire dalla società stessa – in modo graduale e organico. Una transizione affrettata o imposta dall’esterno rischia di portare non alla liberazione, ma al collasso e alla frammentazione. E questo non sarebbe solo un dramma per la popolazione iraniana, ma – come hanno insegnato i casi dell’Afghanistan e dell’Iraq – un pericolo per l’intera regione e per il mondo.
Immagine di copertina: gli iraniani scendono in piazza dopo il cessate il fuoco con Israele, il 24 giugno 2025. Foto di Negar / Middle East Images via AFP.


