Egitto. L’insostenibile inettitudine del governo della Fratellanza

No, non sono tutti uguali. La protesta che ha condotto all’allontanamento di Morsi dimostra che nel mondo arabo è tramontata definitivamente l’era dell’omogeneità più o meno imposta. Le scene del 25 gennaio 2011 si ripetono due anni dopo, e in scala maggiore. Allora infatti si era trattato di abbattere un regime forte dal punto di vista securitario, ma totalmente screditato presso l’opinione pubblica. In questi giorni invece, in piazza e nelle vie del Cairo e delle altre città, si sono fronteggiate correnti che hanno idee diametralmente opposte (e spesso molto confuse) intorno al futuro del loro Paese. E se i manifestanti del Fronte di salvezza nazionale hanno certamente vinto la prova di forza iniziata il 30 giugno, grazie al decisivo supporto dell’esercito, i Fratelli musulmani possono ancora contare su numerosi sostenitori.

In queste ore cruciali due sono gli scenari possibili. Quello più favorevole prevede l’attuazione da parte di tutte le forze politiche, Fratelli compresi, della road map imposta dall’esercito attraverso il comunicato del generale al-Sîsî. In altre parole, si azzera tutto, a cominciare dalla controversa Costituzione, e si riparte da capo fissando le regole del gioco. Andava fatto subito, sul modello della Tunisia, ma una serie di fattori (demagogia, impreparazione, calcoli politici) hanno rimandato l’accordo a data da destinarsi. E nel frattempo, mese dopo mese, la dirigenza dei Fratelli Musulmani s’impadroniva metodicamente di tutti i principali centri di potere secondo una logica egemonica e senza alcuna ricerca seria di un dialogo con le opposizioni. Opposizioni che non erano rappresentate soltanto dai giovani del movimento di ribellione civile, ma anche da figure come lo Shaykh di al-Azhar o il Papa dei copti, difficili da liquidare in chiave complottistica come “forze straniere destabilizzatrici”.

È significativo che la crisi egiziana abbia prodotto una spaccatura nella dirigenza internazionale dei Fratelli Musulmani. Secondo il quotidiano al-Masry al-Yom, ad esempio, il leader tunisino di an-Nahda, Rashed al-Ghannoushi, avrebbe raccomandato di accettare le richieste della piazza e andare a elezioni presidenziali anticipate. Ma, ancora una volta, ha prevalso la linea dello scontro frontale.

Una giustificazione per questa politica i Fratelli la potevano per la verità invocare: la priorità, secondo molti, era rimettere in funzione la macchina economica del Paese, sull’orlo del collasso. Il punto però è che hanno fallito proprio a questo livello e così hanno perso la fiducia di una parte consistente del loro elettorato, mentre paradossalmente l’eccesso di poteri che si erano attribuiti e la cancellazione delle istanze di controllo li hanno privati della possibilità di un aggiustamento di rotta, oltre a incidere sostanzialmente sulla loro legittimità. Certo la rapidità del cambiamento ha sorpreso un po’ tutti: ancora nell’estate scorsa il Segretario del Partito Socialista egiziano, molto critico verso i Fratelli, pronosticava in un’intervista a Oasis 5 anni di governo Morsi, pur aggiungendo: «Mi aspetto dei mesi molto difficili […]. Nel futuro lontano tutto questo cambierà, ci sarà un’imponente rivoluzione contro l’Islam politico. Gli egiziani sono cambiati psicologicamente, non temono più nessuno. Io personalmente sono molto contento che i Fratelli abbiamo avuto la possibilità di andare al potere. Vedremo cosa sapranno fare, come risolveranno il problema della povertà, dell’immondizia nelle strade, il problema della disoccupazione di 8 milioni di giovani…». È lo scacco dell’Islam politico, per usare l’espressione di Olivier Roy. Perché quando una religione si ideologizza, è sui risultati politici, e non più sui dati di fede, che sta o cade.

Ma accanto a questa ipotesi, c’è sempre possibile lo scenario che tutti paventano, la guerra civile.
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