Dopo Gaza, rimpasto interno al Governo israeliano: verso nuove elezioni nel 2015?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La guerra a Gaza, meglio nota come “Operazione Barriera Protettiva”, si è conclusa da ormai un mese – con il cessate  il fuoco del 26 agosto scorso- senza che sia chiaro né per i Palestinesi né per gli Israeliani chi l’abbia vinta. Un sondaggio realizzato dal quotidiano palestinese Ma’an News e dal Palestinian Center for Policy and Survey Research riporta che unf  netta maggioranza di Palestinesi della Striscia e della Cisgiordania (79%) sia convinta della vittoria di Hamas, mentre nemmeno un quarto degli Israeliani –secondo l’autorevole quotidiano Ha’aretz – riterrebbe di aver raggiunto una situazione migliore o effettivi risultati attraverso l’operazione militare appena conclusasi. Il quadro che sembra emergere da questi due sondaggi paralleli è, dunque, che gli abitanti di Gaza, malgrado il numero spropositato di vittime, e soprattutto la leadership di Hamas siano riusciti a resistere e tener testa all’attacco militare dell’IDF, mentre molti cittadini israeliani avrebbero sperato in un risultato più risolutivo, che culminasse nella sconfitta di Hamas e in un cambio di regime (ovvero, nel reingresso di Fatah nella Striscia).

L’Operazione “Barriera Protettiva” è costata enormemente allo Stato d’Israele, sia in termini di vite umane (66, il numero più alto dalla Seconda guerra in Libano del 2006), sia in termini prettamente economici: ben 8 miliardi di NIS (circa un miliardo e settecento milioni di euro) sarebbe la stima compiuta dal Tesoro nel bilancio per l’anno fiscale 2015, stima che l’esercito ritiene comunque ancora inferiore al costo effettivo (valutato 2 miliardi di euro di costi diretti).

Il braccio di ferro sul budget è stato, dunque, al centro di un lungo e difficile negoziato trilaterale –conclusosi lo scorso 24 settembre – tra Ministero dell’Economia, Governo e esercito, animati da interessi divergenti. Il primo, guidato dal Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid, era stato eletto con l’obiettivo dichiarato di limitare le spese militari ed aumentare quelle civili e si è trovato a rinunciare al punto più qualificante della sua azione di governo. Un passaggio che non è passato inosservato all’opinione pubblica israeliana, causando un crollo verticale della fiducia dell’elettorato nel partito, che secondo i sondaggi sarebbe scesa al 40%, perdendo ben 8 seggi virtuali. Anche l’esercito (IDF) – rappresentato dal Ministro della difesa Ya’alon – sarebbe uscito parzialmente perdente dai negoziati sul bilancio, avendo richiesto ben quattro miliardi di euro per i costi militari appena sostenuti, mentre il Governo gliene avrebbe accordati “solo” due miliardi e settecento milioni. Nonostante il bilancio annuale della difesa ammonti già a 14 miliardi di euro – comprensivi dei 2 miliardi e mezzo finanziati annualmente dal Congresso USA sotto forma di aiuti esteri ai Paesi partner della regione –, l’IDF reclama che senza un sostanziale aumento del suo budget non sarà in grado di modernizzare i propri armamenti tecnologici e rimanere all’altezza delle sfide militari regionali (in primis, i razzi di Hamas contrastabili con l’Iron Dome e la corsa nucleare iraniana).

Il Governo avrebbe quindi cercato di accontentare le richieste dell’esercito senza esaudirle del tutto per non alimentare ulteriormente gli umori negativi dell’opinione pubblica. In definitiva il costo della guerra sarebbe stato scaricato sui bilanci già magri di altri ministeri e sul deficit pubblico, che nel 2015 passerà dal 2.5 al 3.4%: una politica che perfino il Governatore della Banca d’Israele Karnit Flug ha bollato come “anti-sociale”, nel senso che graverà pesantemente sulla spesa pubblica in settori sensibili come istruzione, welfare e sanità, in cui Israele già spende molto meno della media dei Paesi OECD. Tutto questo mentre anche le stime di crescita per il Paese si riducono, con l’Ufficio Centrale di Statistica che prevede appena tra il 2 e il 2.3% di crescita nei prossimi cinque anni rispetto ad una media compresa tra il 3.5 e il 5% in quegli scorsi: abbastanza da lasciare scontenti i cittadini israeliani che, a fronte di questi sacrifici, non vedono gli evidenti benefici in termini di sicurezza che l’Operazione Barriera Protettiva avrebbe dovuto loro assicurare.

Se, dunque, i negoziati sul bilancio hanno incrementato la tensione tra le forze politiche, nell’opinione pubblica e in Parlamento sono emersi vari gruppi di scontenti, che si sono coalizzati contro il Governo: i più insoddisfatti sarebbero i cittadini del Sud e delle città di sviluppo e kibbuzim limitrofi a Gaza, su cui i razzi non hanno mai cessato di cadere anche a seguito del cessate il fuoco. Tanto che un’ala scissionista del partito di governo – il Likud – si starebbe staccando per fondare un proprio partito – Ha Dromim, i sudisti- con l’obiettivo di collocarsi ancora più a destra dell’attuale Likud e il programma di tutelare gli interessi dei cittadini del Sud del Paese forzando una soluzione definitiva del “problema Gaza”. I Dromim andrebbero a infoltire, con la loro scissione, quell’ala del partito di governo critica della decisione del Premier Netanyahu d’interrompere l’operazione militare lo scorso 26 agosto in assenza di risultati tangibili: un gruppo ingrossato da defezioni illustri avvenute negli ultimi giorni, come quelle di Gideon Sa’ar, ex ministro dell’Istruzione, e di uomini vicini al Premier e membri del Comitato centrale del Likud – come Moshe Kahlon e Danny Danon. Senza contare la scissione interna avvenuta tra i due partiti di governo mentre la guerra era ancora in corso, passata quasi inosservata: il divorzio tra il Likud e l’Israel Beitenu del Ministro degli esteri Avigdor Lieberman, anch’esso consumatosi sulle modalità di conduzione della guerra.

Abbastanza da far mormorare ad alcuni giornalisti la possibilità di elezioni anticipate nel caso in cui non si arrivasse ad un accordo sul bilancio entro il prossimo 1 novembre, come prevede la Legge fondamentale (di livello costituzionale). Questo mentre in un recente sondaggio redatto dal Guttman Center il 69% degli Israeliani si dichiara scontento della performance economica del suo Paese, il 61% sfiduciato nell’attuale Governo e uno scarso 50% ancora interessato ad una ripresa di qualsiasi processo di pace con i Palestinesi.

Come interpretare, dunque, l’insoddisfazione generale espressa dai cittadini israeliani nei confronti del loro Governo? Come una potenziale virata ancora più a destra degli equilibri politici del Paese, in cui, però, l’attuale partito di governo Likud rimarrebbe comunque l’ago della bilancia nel Parlamento israeliano: il Premier Netanyahu appare, infatti, sempre di più come una forza centrista e moderata, capace di utilizzare la forza, ma con obiettivi limitati. I sondaggi del Guttman Center indicano chiaramente che, se oggi si andasse ad elezioni anticipate, il blocco delle forze di destra riporterebbe una vittoria ancora più netta dell’ultima tornata elettorale (gennaio 2013), riportando 72 seggi virtuali contro i 48 della sinistra. Tuttavia, all’interno del blocco di destra convivono varie anime, le quali esprimono visioni anche sostanzialmente diverse sul futuro del Paese e, tra di esse, i partiti con maggiori aspettative di crescita sarebbero la Casa ebraica (ha-Bayt ha-Yehudi), l’Israel Beitenu e lo stesso Likud (sondaggio Ma’ariv, settembre 2014). Tra di loro si trovano sostenitori dell’attuale status quo, di un certo grado di autonomia per la popolazione palestinese (ma non per i Territori), della cosiddetta “soluzione giordana” – ovvero negoziati diretti con il Regno hashemita di Giordania – e dello “stato unico” (pari diritti per Israeliani e Palestinesi di Cisgiordania in uno Stato ebraico, annessione della West Bank e creazione a Gaza di uno Stato indipendente): l’unica cosa certa è che non si trovano molti sostenitori degli Accordi di Oslo e della soluzione dei due Stati.

Comunque si concludano i futuri negoziati tra Israele e Governo d’unità nazionale palestinese, è evidente che la “questione di Gaza” rimarrà al centro dell’attenzione e che l’attuale Governo – come quelli che in futuro potrebbero uscire dalle urne – lavoreranno attivamente affinché i Palestinesi si dividano sempre di più in “buoni” e “cattivi”, in “moderati” ed “estremisti”, in “Palestinesi dei Territori” e “abitanti di Gaza”, in modo da proiettare difficoltà crescenti sulla tenuta della loro solidarietà interna e sul già complesso processo di riconciliazione nazionale attualmente in corso.

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