Gli arabo-israeliani tra Terza Intifada, class actions e integrazione locale

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 4 febbraio scorso, Ahmed Tibi, arabo israeliano e leader del Movimento arabo per il cambiamento (Ra’am Ta’al) attualmente parte della Lista Araba Unificata, ha tenuto un discorso alla Casa Bianca sulla situazione svantaggiata degli arabo-israeliani, sottolineando la totale assenza in Israele di un piano politico di integrare questa minoranza, che pure costituisce una cospicua parte della popolazione in Israele (circa il 20%). Tibi ha tuonato che è inaccettabile che solo un’esigua percentuale araba sia impiegata nel settore pubblico (7.8%) o nelle banche israeliane (1 o al massimo 2 lavoratori arabi su 900 ebrei), che non siano state pianificate aree industriali nei villaggi arabi e che ancora persistano discriminazioni nel settore educativo oltre che in quello legislativo.

Dalle sistematiche discriminazioni governative, ovvero dall’assenza di politiche orientate al settore arabo, deriva anche la mancanza di servizi ed infrastrutture nei quartieri arabi. Come riportato da Le monde(“Les Arabes israéliens ont-ils le droit de se faire livrer à domicile ?”, 27 gennaio), gli arabo-israeliani sono discriminati anche in quei servizi ai quali normalmente, avendo i mezzi economici, potrebbero accedere in maniera indifferenziata e come consumatori -come la consegna a domicilio di generi alimentari acquistati nei supermercati-, ma dei quali, in pratica, non possono usufruire perché catene nazionali importanti come il gigante dell’alimentare Supersol si tengono lontane dai villaggi arabi (ne è nata una disputa giudiziaria tra gli abitanti dei villaggi di Fassuta e Rameh e la catena, la cui distribuzione a domicilio non copre ben il 90% dei villaggi arabi).

Oltre alle class actions e alle barriere d’accesso al mondo del lavoro, però, gli arabo-israeliani hanno anche altri e più urgenti problemi di natura politica. L’attuale Terzo Governo Nethanyahu starebbe rimettendo in discussione i diritti dei parlamentari arabi regolarmente eletti alla Knesset di avere incontri ed interviste con persone considerate “terroristi”. Il Governo avrebbe anche cercato di limitare la presenza araba alla Knesset, alzando la soglia elettorale dal 2% al 3,25%, con l’intenzione di tagliarne fuori la tradizionale frammentata rappresentanza. Inoltre, una legge appena votata sul finanziamento delle ONG con fondi stranieri avrebbe decurtato i fondi disponibili per varie ONG come Adalah,B’tselem, ICAHD, Moked, Breaking the silence e il Comitato pubblico contro la tortura, attive sul fronte dei diritti umani e schierate per l’uguaglianza tra tutti i cittadini. Infine, tra le leggi discriminanti si aggiungerebbe quella sulla criminalizzazione della Nakba, che congela i finanziamenti statali a tutte le istituzioni che evochino la disfatta araba come un giorno di cordoglio nazionale – decisione che avrebbe già portato alla sospensione di finanziamenti pubblici all’unico teatro arabo in Israele sovvenzionato: l’Al-Midan di Haifa – e quella ancora allo studio, proposta dal Ministro della Cultura e dello Sport Miri Regev, che proibirebbe a qualsiasi istituzione culturale sostenuta da fondi statali di rifiutarsi di cooperare con le analoghe istituzioni presenti nelle colonie (legge sulla lealtà).

In aggiunta, il ramo nord del Movimento islamico, popolare movimento culturale e sociale a cui afferiscono circa il 40% degli arabo-israeliani, è stato bollato come organizzazione terroristica e messo fuori legge nel novembre 2015, con la conseguenza che ora i suoi membri sono passibili di arresto e le sue proprietà di essere confiscate. Si tratta di un movimento sociale e religioso il cui obiettivo principale è quello di puntare alla ri-islamizzazione pacifica della società attraverso opere pie ed attività educative, nonché di vegliare sui Luoghi Sacri a Gerusalemme, promuovendo la presenza musulmana palestinese ad al-Aqsa. Sin dal 2001, infatti, il Movimento era stato molto attivo nel convogliare centinaia di persone ogni venerdì dalla Galilea o dal Negev verso la Spianata delle moschee per pregare, principalmente, ma anche per visitare i mercati della Città vecchia: un modo per riallacciare il legame dei visitatori palestinesi con la città, mantenendo forte il legame e la coesione nazionale, rafforzando contemporaneamente la presenza musulmana ad al-Aqsa e sostenendo la sopravvivenza economica dei negozianti palestinesi della Città, il cui commercio è da anni costantemente in calo a causa del Muro di separazione e della crisi nel settore turistico.

Il bando del Movimento, dunque, che al di là delle sue attività di propaganda assolveva anche a positivi compiti di assistenza e solidarietà, è giunto mentre la tensione tra arabi ed ebrei in quella che è stata soprannominata “L’Intifada dei coltelli” continua a montare. L’attuale ondata di violenza nel Paese non è poi così differente dalla Seconda Intifada, seppure notevolmente meno violenta, e scaturisce da una profonda mancanza di comprensione tra le due parti. Le ragioni sono sempre le stesse -la continua politica di costruzione degli insediamenti, l’umiliazione dei leader palestinesi, l’assenza di negoziati seri di pace che possano far avanzare la soluzione dei due Stati- sono tutti aspetti che alimentano sentimenti di disperazione nei giovani palestinesi della Cisgiordania (quelli della Striscia di Gaza non ne sono toccati), così come anche nei giovani arabo-israeliani, che pure vivono in condizioni profondamente diverse.

Un’incomprensione altrettanto profonda divide, infatti, anche i cittadini arabi ed ebrei di Israele: gli arabi rimproverano agli ebrei diessere indifferenti alle condizioni di vita degli abitanti di Gaza e Cisgiordania, mentre gli ebrei percepiscono la minoranza araba come una “quinta colonna” sempre pronta a schierarsi con i nemici. Percezione alimentata dai media, che danno molto risalto alla partecipazione degli arabo-israeliani all’attuale ondata di violenza, ma anche all’arruolamento di 50 arabo-israeliani tra le file dell’ISIS, ritraendoli, dunque, come una minaccia costante. La separazione fisica indotta dalla costruzione della Barriera ha reso impossibile il contatto tra le due comunità anche in quei luoghi, come Gerusalemme, dove esso era più frequente, favorendo il processo di esclusione e di successiva radicalizzazione degli arabi in Israele, così ben descritto da Ephraim Karsh. E’ normale, quindi, giungere alla conclusione tratta dalla ricercatrice Smadar Bakoviç nel suo libro-inchiesta sugli arabo-israeliani intitolato “L’Ombra lunga” (“Tall Shadows: Interviews with Israeli Arabs”, Hamilton Books, 2006), in cui riporta come gli arabo-israeliani si sentano sempre più schiacciati dall’immagine di potenziali terroristi, sentendosi anche in questo accomunati ai Palestinesi oltre il muro, la cui differenza – nelle loro parole, raccolte dall’autrice – è che abbiano una vita ancora più dura della loro.

Tuttavia, per quanto la situazione degli arabo-israeliani sia dura e la tensione, con una maggioranza crescente di ebrei sempre più radicali, molto accentuata dagli ultimi fatti di violenza, la loro condizione resta del tutto distante da quella dei loro compatrioti palestinesi oltre cortina. Alcuni miglioramenti nelle loro condizioni socio-economiche sono effettivi e sono stati fortemente voluti dai vari governi israeliani, pur di destra, che si sono succeduti al potere da Olmert in poi. Robert Cherry, Professore al Brooklyn College, ci spiega perché: non è certo l’altruismo a motivare il Governo israeliano, ma il desiderio di compiere il salto verso il pieno sviluppo economico, incorporare tutto il potenziale presente nella forza-lavoro del Paese. Uno degli elementi trainanti la strategia del Governo è stata, infatti, l’entrata del Paese nell’OECD o OCSE (Organizzazione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo): una membership prestigiosa, ma che avrebbe esposto il Paese a tutta una serie di valutazioni statistiche sulla composizione della forza-lavoro, ancora fortemente penalizzante il settore arabo, con solo un quinto delle donne arabe impiegate e un tasso di povertà assoluta (pari all’80%)registrato tra la minoranza beduina del Negev.

Il Governo ha allora intrapreso un cambio di rotta a centottanta gradi e varato politiche ambiziose di discriminazione positiva: sono nati i programmi TEVET per l’impiego delle donne nei settori dell’high-tech dopo un apposito training, il Centro per lo sviluppo economico arabo-ebraico che raccoglie una rete di 1800 imprenditrici arabe, e molte associazioni (come Jasmine) che aiutano le donne ad avviare piccole attività, ottenere fondi e gestirne budget. E’ così che 120 aziende arabe sono state messe in condizione di esportare i propri prodotti nel mondo (soprattutto gioielli, cosmetici naturali, prodotti agricoli), contribuendo al PIL nazionale. Infine, il Jerusalem Post riporta come anche enti tradizionalmente esclusivamente votati allo sviluppo del settore ebraico-come l’Agenzia ebraica- abbiano cominciato a volgere la loro attenzione verso gli arabi, stanziando ben 10 milioni di NIS (shekel) in programmi a tutela delle minoranze. Esempio di questi nuovi orientamenti è il Project Ten, che invia giovani ebrei nelle comunità arabe di Israele per promuovere l’insegnamento della lingua inglese e di altre capacità per accrescere le qualifiche utili per entrare nel mondo del lavoro. Ancora più significativo il programma di training delle forze di polizia lanciato dall’Avraham Fund, una fondazione privata, per sensibilizzare i poliziotti israeliani ai problemi delle comunità arabe del Paese, limitare il ricorso alla violenza e istituire nuove forze di polizia di quartiere nei villaggi arabi precedentemente sguarniti e piagati da forti tassi di criminalità.

Il cambiamento di rotta operato dal Governo non ha fatto attendere i suoi risultati: nuovi parchi industriali congiunti arabo-ebraici sono sorti in comunità miste come Nazareth e Nazareth Illit, un pacchetto di incentivi è stato varato per il trasferimento di giovani arabi a Gerusalemme per prestare servizio nelle strutture pubbliche e il rilancio di un programma più ampio di servizio civile nazionale è allo studio per cercare di coinvolgere anche quel 40% più povero della minoranza araba che non studia e non lavora ed è perciò considerato particolarmente vulnerabile.

Queste politiche, come osserva giustamente Cherry, non giungono al cuore del problema: quello di istituire uno Stato israeliano laico veramente rappresentativo ed inclusivo di tutti i suoi cittadini. Rappresentano, però, un sensibile passo avanti. Tuttavia, migliorare le condizioni di vita degli arabo-israeliani per garantire la pace (il noto progetto di Peres) è condizione necessaria, ma non sufficiente. Ilan Peleg e Dov Waxmann, autori di una delle opera più esaustive ed accurate sulla condizione degli arabo-israeliani (Israel’s Palestinians- The Conflict Within, Cambridge University Press, 2011) ricordano infatti come altre domande rimangano evase: la richiesta di vedersi accordata un’autonomia culturale, quella di incorporare alcuni simboli della minoranza araba a livello nazionale, la necessità di allocarle più terre e permessi di costruire, quella di salvaguardare i diritti collettivi delle tribù beduine nel deserto e anche quella, da cui si era partiti, di accettare il libero gioco elettorale in un regime di piena democrazia con partiti arabi che possano entrare a far parte delle coalizioni di governo, cosa che fino ad oggi non si è ancora mai data.

Senza le libertà civili e il riconoscimento di alcuni sostanziali diritti politici collettivi, la strada della convivenza rimarrà sbarrata. E’, però, vero che le attuali riforme economiche, se colte dalla minoranza araba come un’opportunità positiva, potranno rafforzare la comunità all’interno di Israele e darle più forza, più legittimità e più mezzi per condurre pacificamente le prossime battaglie all’interno della società israeliana. Il problema resta capire se gli arabo-israeliani siano anch’essi pronti a cogliere questa opportunità e lavorare sul terreno affinché nuovi spazi di libertà si aprano nella società israeliana, seguendo l’incoraggiante esempio di leader aperti e progressisti come Ayman Odeh, piuttosto che gli appelli conservatori di deputati come Jamal Zahalka (Balad), che ritengono ogni compromesso con la maggioranza ebraica un cedimento dell’identità nazionale e che vorrebbero tenere la loro comunità ghettizzata all’interno dei propri angusti confini per salvaguardarne l’identità collettiva al prezzo del miglioramento delle sue condizioni di vita e della sua evoluzione complessiva.

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