Algeria, nuovi scioperi e sit-in:
gli insegnanti guidano la protesta

Da Reset-Dialogues on Civilizations

“Sciopero ad oltranza”. Queste le parole pronunciate martedì scorso al sit-in organizzato da dozzine di insegnanti davanti al rettorato dell’università di Bordj Bou-Arréridj, cittadina situata 200 Km a sud-est di Algeri e prossima ai mille metri di altitudine. La protesta è scoppiata in risposta all’ennesimo ritardo nell’assegnazione degli alloggi ai 160 insegnanti beneficiari, che dopo aver seguito il lungo ed estenuante iter burocratico tipico della farraginosa macchina statale algerina, accusano adesso il rettore di “voler riscrivere la lista al fine di ottenere un alloggio anche per sé”. L’amministrazione, da par suo, si è difesa, sottolineando che il ritardo è semplicemente dovuto ad ulteriori verifiche richieste a livello nazionale e che presto tutti gli alloggi saranno assegnanti ai rispettivi beneficiari.

Rassicurazioni che, però, non hanno soddisfatto gli insegnanti, che sono quindi passati al contrattacco, inscenando una colorata e rumorosa protesta che ha bloccato il regolare scrutinio degli esami di fine anno e conquistato le prime pagine dei quotidiani locali. Soprattutto, il loro avvertimento è stato scandito chiaramente: “Se alla ripresa dell’anno scolastico gli alloggi non dovessero essere ancora stati assegnati, bloccheremo immediatamente il regolare svolgimento delle lezioni”.

Ancora una volta, quindi, sono gli insegnanti a guidare la protesta sociale che da mesi dilaga nel Paese. Sia chiaro, non siamo certo in presenza di un’ondata rivoluzionaria. Scioperi e sit-in rimangono focalizzati su domande limitate, sono di breve durata, e coinvolgono spesso solamente i lavoratori di un preciso settore. Nonostante questo, negare la crescente “anima sociale” del malessere algerino sarebbe delittuoso. Una tappa decisiva di questa ondata contestativa verso le politiche governative è stata certamente quella che per molti è semplicemente diventata “la marcia della dignità”. Partita da Béjaia lo scorso 27 marzo, la protesta di centinaia di insegnanti di ruolo e precari ha attraversato il paese per 8 giorni ed oltre 250 Km, prima di giungere ad Algeri. Lungo il cammino, che ha seriamente messo alla prova le capacità fisiche dei contestatori, gli insegnanti hanno raccolto una diffusa solidarietà con le varie comunità attraversate, che si sono adoperate per fornire supporto in vari modi alla composita carovana. Inoltre, il giornaliero avvicinamento verso la capitale ha anche permesso un’insolita copertura mediatica degli eventi, dando risalto alla rabbia che veniva gridata lungo la marcia e producendo un senso di attesa simile a quello provato per i grandi giri a tappe ciclistici.

Ciò detto, una volta giunti ad Algeri, gli insegnanti, che chiedevano l’assunzione a tempo indeterminato dei precari ed il pieno riconoscimento del proprio ruolo, hanno dovuto fare i conti con un regime certamente in crisi di legittimità, ma non per questo disposto a mostrarsi arrendevole. Anzi, il rischio che la protesta degli insegnanti potesse costituire un pericoloso precedente, divenendo un modello anche per altri settori in ebollizione, ha “consigliato” al governo algerino di far ricorso al suo classico repertorio di “manganello e concessioni”. Il presidio fisso che gli insegnanti avevano inizialmente predisposto nel centro di Algeri è stato quindi spostato a Boudouaou, cittadina sita a circa 50 Km ad est della capitale, per poi essere violentemente sgomberato il 17 aprile.

Al tempo stesso, la testarda determinazione degli insegnanti nel proseguire la protesta e la crescente preoccupazione delle famiglie degli studenti, che rischiavano di dover ripetere l’anno per le tante ore perse, ha indotto il governo a più miti consigli. Le trattative condotte in prima persona dal premier, Abdelmalek Sellal, con i rappresentati degli insegnanti hanno quindi portato alla promessa della piena stabilizzazione di tutti i precari ed un maggior riconoscimento per un settore che, negli ultimi anni, ha ricevuto scarse attenzioni ed ancor meno finanziamenti. Visti i precedenti, rimane altamente dubbio che tutto ciò che è stato garantito dal governo troverà effettiva e rapida attuazione. Nonostante questo, il livello di confronto tra gli insegnanti e le autorità, prima della nuova fiammata di Bordj Bou-Arréridj, sembrava essere significativamente scemato d’intensità nelle ultime settimane.

Non solo insegnanti, però, perché molte altre categorie sono in agitazione. Lunedì scorso il direttore generale della SNTF, la società nazionale del trasporto ferroviario, ha annunciato che, di fronte alla volontà dei macchinisti di continuare il proprio sciopero ad oltranza, considerato “illegittimo” dalla direzione, “siamo stati obbligati ad applicare il regolamento interno e comminare sanzioni”. Questo non ha però arrestato la determinazione dei circa 700 macchinisti coinvolti nella protesta, che hanno rilanciato la propria piattaforma programmatica articolata su vari punti,che vanno dalla richiesta di un avanzamento di livello ad un maggiore indennizzo per le ore lavorate durante il weekend e nei giorni festivi. Sempre lunedì, i lavoratori delle poste algerine della regione di Oum el-Bouaghi, che si estende vicino al confine con la Tunisia, hanno inscenato un sit-in di protesta per contestare la decisione presa, il giorno precedente, dalla direzione di licenziare il capo del dipartimento delle opere sociali. Oltre 80 lavoratori hanno così firmato una petizione nella quale chiedono l’immediato reintegro del capo di dipartimento licenziato e l’intervento diretto dei sindacati per risolvere la questione.

Un altro settore che è rimasto in grande fermento negli ultimi mesi è stato certamente quello dei lavoratori sanitari. A metà aprile centinaia di questi hanno marciato per le strade di Tizi Ouzou, capoluogo della regione omonima e capitale culturale della Cabilia, la principale ‘enclave’ berbera in Algeria. Partiti dal palazzo della DSP (la direzione della sanità pubblica), i lavoratori hanno prima imboccato viale Houari Boumedienne, per poi essere ricevuti dal governatore regionale, al quale hanno raccontato le “condizioni catastrofiche in cui versa il loro settore socio-professionale”. La scorsa settimana è stato invece il turno degli specializzandi della regione di Oum el-Bouaghi, che hanno denunciato le pessime condizioni di lavoro, evidenziando lo scarso numero di infermieri e dottori presenti in corsia, e puntato il dito contro il blocco delle assunzioni, che mette a repentaglio la salute dei pazienti ed il loro futuro professionale.

Questa crescente capacità di espressione pubblica del malessere sociale, che affligge l’Algeria ormai da diversi decenni, si inserisce nel contesto di una battaglia molto partecipata per la difesa della libertà di stampa, che ha preso avvio dall’attacco sferrato dal governo contro il quotidiano El Khabar. La campagna, condotta attraverso l’arma giudiziaria, ma dall’evidente sapore punitivo per una testata che dalla sua prima pubblicazione nel 1990 ha saputo conquistarsi la reputazione di ‘indipendente’ ed ‘autorevole’, ha però determinato la decisa presa di posizione da parte della stampa francofona al fianco dei colleghi vessati dalle autorità, portando al formarsi di un forte e combattivo movimento di stampo classicamente liberale. Il tutto mentre mercoledì scorso il governo algerino ha ricevuto un nuovo e pesante attacco da parte di Amnesty International. In particolare, l’attenzione dell’organizzazione non governativa, che si occupa della difesa dei diritti umani, si è concentrata sul processo in corso contro quattro militanti del comitato nazionale per la difesa e i diritti dei disoccupati (CNDDC, l’acronimo francese del gruppo).

Gli accusati, che rischiano fino ad un anno di prigione per aver manifestato contro l’alto tasso di disoccupazione presente a Hassi Messaoud, zona strategica per la presenza di importantissimi giacimenti di idrocarburi e per questo sottoposta ad una legislazione speciale, hanno così incassato le parole spese a loro favore da Amnesty International, che ha sottolineato come “imprigionare questi militanti per aver preso parte a delle manifestazioni pacifiche sarebbe un grave attentato alla libertà d’espressione e di riunione”. La sentenza è attesa per i prossimi giorni. Intanto, dopo molti anni caratterizzati da violente quanto effimere ed improvvise esplosioni di rabbia, un nuovo movimento di contestazione animato da lavoratori e disoccupati sembra attraversare un Paese che, ricchissimo di petrolio e gas, rimane prigioniero di una ristretta cerchia, che continua ad amministrarlo esclusivamente a proprio vantaggio.

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