Di seguito un estratto di Oreste Pivetta in memoria di Goffredo Fofi, scrittore, critico cinematografico, intellettuale impegnato in battaglie civili. È stato animatore di riviste storiche come Quaderni Piacentini, Ombre rosse, Linea d’ombra, La terra vista dalla Luna, e direttore della rivista culturale Lo Straniero. La versione integrale dell’articolo è nell’ultima newsletter di Danilo De Biasio.

Presentazione presso la Casa delle Letterature di Roma. Da sinistra, Marcello Baraghini, Silvia Jacovitti, Oscar Cosulich, Vincenzo Mollica e Goffredo Fofi. (Foto di Stampa alternativa, Flickr)
[…] Sapeva leggere, guardare, ascoltare sempre considerando il “contesto”, brutta parola che sta per storia, economia (nel senso della distribuzione della ricchezza), umanità (nel senso di collettività di donne e uomini), società divisa tra poveri e ricchi in un eterno (magari da noi oggi sopito) conflitto di classe.
Una volta capitammo a parlare di Grand Hotel e di Bolero, dei fotoromanzi che ebbero una straordinaria diffusione e che molti, professori e professorini, consideravano in modo sprezzante i “giornali delle servette”. Goffredo mi riportò alla realtà di quegli anni e al valore di quei fogli, prime letture e primi strumenti di acculturazione di un popolo semianalfabeta.
Del resto, lui, ragazzo, si avvicinò al cinema grazie ai libretti che sua madre comprava e che riassumevano le trame dei film più celebri. Anche quelli del suo Totò, che in un libro celebre, scritto con Franca Faldini, sottrasse al giudizio spocchioso della “sacra famiglia dei critici cinematografici”, esaltando le virtù dell’attore e dell’interprete acuto, paradossale, spregiudicato di una società, di un mondo, di un paese come il nostro.
Ricco di sogni e di contraddizioni, rappresentati dalle mille espressioni verbali e mimiche del grande comico. Ne avrebbe scoperto o riscoperto un altro, Alberto Sordi, dal buffo al tragico di un personaggio simbolo delle miserie nostrane.
Per questo poco apprezzando l’accademia nutriva una gran stima per un accademico milanese, professore di letteratura alla Statale, Vittorio Spinazzola, che aveva scardinato le classiche graduatorie tra generi e sottogeneri, indagato le retrovie della letteratura, ritrovato scrittori e scrittrici (una tra tante, Carolina Invernizio), giudicati ai margini, recuperato gialli e fumetti e fantascienza, grazie a una lettura critica lontana da schemi e classificazioni, soprattutto “contestualizzata” (ci risiamo con il “contesto”).
Goffredo non aveva lauree, ma solo un diploma magistrale: l’insegnante delle medie, pur riconoscendo quanto fosse bravo, sconsigliava il liceo al figlio di un operaio. Il padre aggiustava biciclette, poi si trasferì a Parigi, lavorando nei cantieri edili, e a Parigi, dopo Palermo, arrivò anche Goffredo. Seguì qualche conferenza alla Sorbona, frequentò soprattutto le sale cinematografiche e le riviste di cinema.
Nella storia di Fofi ci sono moltissime riviste. A Parigi scrisse su Positif. In Italia si unì ai Quaderni piacentini, creati da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, sempre carissima premurosa amica. Ne divenne il cuore: le sue polemiche, le sue stroncature, anche le sue generose promozioni.
Le “sue” riviste sono state tante: Ombre rosse, Linea d’ombra, La terra vista dalla luna, Dove sta Zazà, Lo straniero, Gli asini. Dimentico qualcosa. Le voleva perché le percepiva come strumento di battaglia politica e culturale, di critica militante e come occasione di incontro, di aggregazione, di solidarietà, di conoscenza.
La ricchezza di quelle esperienze si può riconoscere anche nei lunghissimi elenchi dei collaboratori. Ma Goffredo ne cercava sempre di nuovi. Cercava in tutta la penisola e fuori.
Soprattutto giovani, che potessero presentare esperienze originali, pensieri originali e speranze, storie piccole, storie ai margini. Di riviste ne immaginò e ne propose fino all’ultimo. Con una novità: più di una volta mi disse che si sarebbe ritirato a Lamezia Terme, in una comunità, e che lì avrebbe messo in piedi una radio. Chissà se ce l’avrebbe fatta. Ci avrebbe provato. La rassegnazione non era nel suo bagaglio.
Il problema erano i soldi, che non arrivano mai neppure da chi con facilità qualche generosità avrebbe potuto mostrare. Goffredo ha scritto molto per le sue riviste e moltissimo per i giornali, l’Unità, l’Avvenire, l’inserto culturale del Sole 24 ore, per alcune riviste (ricordo King e, se non ricordo male, una rubrica dal titolo tutto “fofiano”: “Il meglio del peggio”). Gli piaceva la radio. Raramente capitò la televisione (adesso si è rivisto un documentario che è un po’ il sunto della sua vita). Non gli piaceva la televisione. Una volta, per un salone del libro di Torino, mi contattò la redazione di Corrado Augias: lo volevano ospite in una trasmissione culturale, perché era appena uscito un suo libro: Benché giovani. Non so perché chiedessero a me di intercedere. Si negò. Insistetti. Lo pregai. Alla fine si rassegnò. Lo vidi arrivare dal fondo di un corridoio: si capiva che non era contento e lo mostrò, un po’ spazientito, nel corso dell’intervista.
Televisione e giornali, anche i grandi giornali che non gli avevano mai concesso una sola riga, in morte gli hanno dedicato copiosamente servizi e pagine: la solita corsa ad accaparrarsi qualche benevolenza. In vita lo temevano, perché era uno spirito libero, che aveva fatto della libertà il metro del suo lavoro di critico del cinema, della letteratura, della nostra società, “dalla parte del torto”, per svelare ipocrisie, falsità, pregiudizi, quel “senso comune” confezionato dalla politica, dai media, dalla pubblicità, sentimenti e credenze di maggioranze addomesticate.
Mi è capitato di scrivere/ confezionare per Laterza un libro intervista a Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria. Goffredo si raccontò.
Era certo che alle minoranze, libere da compromessi, toccasse la responsabilità della osservazione e della contestazione del presente e soprattutto, libera dai compromessi, dai cedimenti, dalle volgarità del potere, la possibilità di guardare avanti, di progettare il futuro, di ritrovare il valore del conflitto contro un potere corrotto e indifferente alle sofferenze dei più. Esistono ancora quelle “minoranze virtuose” cui si appellava Goffredo? Credo che siano sempre più “minoranze”, ai margini.
Contro il mondo dei convinti, degli assuefatti, degli annichiliti, tutti prigionieri del consumismo (non a caso sul suo tavolo si poteva trovare, tra i tanti libri, La cultura del narcisismo di Christopher Lasch). Lo stato delle cose potrebbe scoraggiare chiunque. Non avrebbe scoraggiato lui, perché pensava ci fosse sempre spazio per opporsi. Non dimenticava Camus e il suo “mi rivolto, dunque sono”.
Andai una volta nella sua casa di Milano, a Porta Venezia, insieme con Grazia Cherchi in occasione dell’uscita di un suo libro, Pasqua di maggio. Entrai in una cucina dove da un lato, lungo un filo, erano appesi lenzuola e asciugamani. Sul gas cuoceva qualcosa. Mi sembrò d’assistere a una scena di un film del neorealismo anni cinquanta. “Pasqua di maggio” ha un sottotitolo: “Un diario pessimista”. Norberto Bobbio ne diede una bella interpretazione: “Ma Fofi è davvero un pessimista? Non direi. O almeno è un pessimista scontento di esserlo, che si sforza di non esserlo”.


