Sereni, Vidali e gli altri. La parabola “eccezionale” dei comunisti italiani

Fu Stalin a sostenere che i comunisti sarebbero “di tempra speciale”, del tutto diversi dagli altri. L’idea si protrasse a lungo, anche nei partiti che non somigliavano più al glorioso Partito bolscevico dell’Unione sovietica. Quello della “diversità” antropologica dagli altri continuò ad essere un mito fondante, e al tempo stesso una macina di pietra al collo, anche per il Pci.

Ciò non toglie che ce ne fossero, eccome, di personalità di tempra particolare. Sono appena stati pubblicati tre libri dedicati a personaggi di questo genere: Lo studio di Patrick Karlsen, dell’Università di Trieste, Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista (1916-56), Il Mulino; Emilio Sereni, l’intellettuale e il politico, a cura di Giorgio Vecchio, Carocci Editore; Aldo Natoli. Un comunista senza partito, di Ella Baffoni e Peter Kammerer, Edizioni dell’Asino. Tre tipi formidabili, tutti d’un pezzo, ma ciascuno diverso dall’altro, nessuno ad una sola dimensione.

Alcuni li ho conosciuti. E pure da vicino. Sereni mi aveva chiamato da Milano a lavorare con lui alle Botteghe oscure che non avevo neanche vent’anni. Ero affascinato dalla sua cultura sterminata ed enciclopedica. Dalla sua figura di dirigente del Pci e del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Avevo letto la biografia scritta dalla sua compagna, Marina. Andai a trovarlo a casa sua, a Monteverde nuovo. Mi impressionò quanto fosse stracolma di libri, e di cassette su cui registrava musica classica, nella stessa maniera ossessiva e sistematica con cui faceva ritagli e compilava milioni di schede di lettura, su sottilissimi rettangolini di carta velina. Ma più ancora rimasi colpito dal tenerissimo affetto verso una delle figliolette, che giocava in una stanza anch’essa piena di libri, tutti sulla Cina. Aveva anche molto humour. Mi attraeva, e al tempo stesso però mi allarmava la sicurezza, un po’ eccessiva, in tutto quel che faceva e diceva.

Ho conosciuto anche Vidali. Anche lui amava definirsi, come Sereni, un “rivoluzionario di professione”. Anzi era stato un professionista dell’azione, prima ancora che della politica, un agente operativo al servizio di Stalin. Nella guerra civile spagnola, da commissario politico del Quinto reggimento, il “comandante Carlos” era stato spietato con la cosiddetta Quinta colonna, i “nemici interni” della Repubblica, gli anarchici e i trotskisti, accusati di fare il gioco di Francisco Franco. Si diceva che gli era venuto un callo tra pollice e indice a forza di giustiziare i “traditori”. Paolo Franchi, autore di Il tramonto dell’avvenire (Marsilio), in cui si parla di tempi forse un po’ meno formidabili, un giorno gli chiese se fosse stato lui a organizzare in Messico il primo attentato fallito contro Trotski. Lui si alzò di scatto e battè il pugno sul tavolo: “Se quell’attentato lo avesse organizzato il compagno Vidali, non sarebbe fallito!!!”.

Aldo Natoli era anche lui un duro e puro. Aveva fatto la Resistenza, poi da segretario della Federazione romana del Pci aveva organizzato, contravvenendo alle indicazioni della Direzione, azioni armate dopo l’attentato a Togliatti nel luglio 1948. Ma dice di non aver mai avuto un’arma “né in mano né in tasca”. Nemmeno Sereni, credo. Ma quando un giorno gli chiesi chi era responsabile dell’uccisione di Giovanni Gentile, mi rispose: “Non preoccuparti: sono stato io a dare l’ordine, da vicepresidente del Comitato di Liberazione”.

Tutti e tre erano stalinisti convinti. Compreso Natoli, che al momento della sua espulsione con il gruppo del Manifesto era sì critico dell’Unione sovietica di Breznev, ma era innamorato di qualcosa di forse anche peggio: della Cina e della Rivoluzione culturale di Mao. Erano uomini di altri tempi, tempi tremendi. Uomini di parte. Che credevano profondamente, forse troppo, in quel che facevano. Anteponevano la “causa” (del socialismo, dei lavoratori, del progresso, del futuro, del partito come strumento per arrivarci…) a qualsiasi altra cosa. La fede di Sereni e di Vidali non fu scalfita dal fatto che erano stati entrambi ad un pelo dall’essere ammazzati da Stalin. Successe anche a Berlinguer. Anche lui era un figlio di quei tempi. Disse a Macaluso che erano stati i sovietici a cercare di ucciderlo in Bulgaria, ma non lo disse a nessun altro, nemmeno a suo fratello, per evitare contraccolpi politici.

Erano fatti così, gente che non si lasciava andare a confidenze. Qualche anno fa Clara, la figlia di Sereni divenuta scrittrice, e purtroppo recentemente scomparsa, mi raccontò che suo padre rimproverava Giorgio Amendola per essersi lascato andare a raccontare troppo, e cose troppo intime nei suoi libri.

Eppure Amendola era il suo grande amico. Sereni aveva un legame particolare con il gruppo dei “napoletani”, la città di sua formazione politica (anche se allora nessuno nel Pci si sarebbe mai sognato di rivendicare l’appartenenza a un gruppo “regionale”, che so di sardi, o siciliani, anziché toscani). Stimava la lucidità dell’ingegnere Gerardo Chiaromonte. Mi raccontava con affetto di un giovanissimo Giorgio Napolitano che nell’immediato dopoguerra andava in stazione a lavare con la pompa gli scugnizzi che sarebbero stati mandati a vivere in famiglie emiliane. Altro che i minori che sbarcano a Lampedusa. “Alcuni di quei ragazzi di strada poi ne combinarono di tutti i colori, rubavano, misero incinte le figlie delle famiglie ospitanti…”.

Fanatici? Ma fanatici che sapevano fare politica. Gente che viveva per il proprio partito, ma sapeva anche pensarla in modo diverso, persino dal Capo, e anche rispettare chi la pensava in modo diverso. Faticate a crederci? Sereni passò una vita a studiare e difendere la piccola proprietà contadina, mentre Stalin i suoi kulak li aveva sterminati. Soprattutto teorizzava il valore assoluto dell’“iniziativa politica”, tipo quella che portò Togliatti a fare un governo prima con il generale Badoglio e poi con De Gasperi. Non credo che avrebbe storto il naso alla formazione di un governo Pd-5 Stelle.

Nostalgia di quel tipo di partito? Certo che no. Ma forse un po’ sì. Con una cautela. La convinzione di essere geneticamente, moralmente superiori agli altri può essere una risorsa. Ma è anche un autoinganno. Rischia di alimentare fanatismi. E, soprattutto, rende più difficile fare politica, cioè interagire con gli altri. L’“eccezionalismo” di partito può essere esiziale quanto quello religioso (la mia religione è quella vera) o quanto senso di superiorità nazionale (l’American exceptionalism, l’eccezionalismo russo, quello cinese, quello di Israele, e così via, per non dire il Sonderweg della Germania nella prima metà del secolo scorso). Ad attirare la mia attenzione su questo difetto “genetico” del Partito a cui entrambi allora appartenevamo con convinzione fu l’amico Napoleone Colajanni, che nel Pci di Togliatti era entrato perché Macaluso e Bufalini gli avevano garantito che poteva continuare a pensare con la sua testa, e da quello di Occhetto era uscito in direzione opposta ai puri e duri.

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