Nell’era della “sondaggiocrazia”

Quest’articolo è uscito sul numero 124 di Reset del marzo-aprile 2011.

La vera ossessione di Berlusconi? L’essere sempre in testa alle classifiche dei sondaggi e al primo posto nel gradimento degli italiani. E non scendere mai. Non è l’attacco della magistratura, «i Pm comunisti», la brutta piega che sta prendendo il «caso Ruby» con il rinvio a giudizio per «concussione e prostituzione minorile». Le rivelazioni di Wikileaks dagli Usa. L’ossessione sono i sondaggi, con i quali ha un rapporto «maniacale». E che controlla in prima persona. E che commissiona di prima mattina, un tempo anche a istituti di ricerca di diversa ispirazione. Li usa in tutte le salse. Ci sono i sondaggi richiesti da Palazzo Chigi, quelli voluti da Palazzo Grazioli, dalla Villa di Arcore, dal Pdl, da Canale 5, Retequattro e Italia 1 nelle diverse trasmissioni e per diverse fasce d’utenza, in differenti orari di programmazione.

Poi quelli delle reti Rai e dei tg. Pubblici e privati. Fonte di committenza sempre la stessa. Unica. Come il pensiero che potrebbero rischiare di creare o orientare.
Per Palazzo Grazioli e Arcore li controlla lui stesso, per Palazzo Chigi c’è il fido sottosegretario Paolo Bonaiuti che parla direttamente con i direttori degli istituti, per la struttura Mediaset il direttore generale per l’informazione Mauro Crippa che, con Claudio Brachino direttore di «Videonews» controlla e impartisce ai direttori di rete le notizie necessarie e il loro dosaggio. Si tratta di quella che, in un articolo dell’11 febbraio Massimo Giannini, vicedirettore di «Repubblica», ha definito la «Struttura Delta» «per mettere a fuoco lo spin comunicazionale con il quale il Cavaliere cercherà di riscrivere ancora una volta a suo vantaggio il “palinsesto” politico-mediatico dell’intera nazione».

Milan Kundera ha paragonato la «società dei sondaggi» a una sorta di «parlamento in seduta permanente che ha il compito di creare la Verità». Del resto, come scrisse negli anni Cinquanta il professor Kenneth Bouldin, dell’Università del Michigan, il mondo «si può perfettamente concepire dominato da una dittatura invisibile, nel quale tuttavia siano state mantenute le forme esteriori del governo democratico». È la base della teoria dei Persuasori occulti, tanto cara a Vance Packard in quel libro di grande successo pubblicato in America nel 1957 e tradotto in Italia l’anno successivo. Siamo allora alla «dittatura dei sondaggi»?

Forse la visione è un po’ apocalittica. Sta di fatto che da tempo ormai, anche in Italia, i sondaggi d’opinione non sono più uno strumento occasionale per indagare sugli umori e sui desideri, per conoscere il mercato e il suo orientamento, per fare ricerca e comprendere i gusti dei consumatori; se applicati alla politica, sono diventati vere e proprie armi da combattimento dentro la grande arena dello scontro politico. O di distrazione. Proprio a suon di sondaggi è nata Forza Italia tra il 1993 e il 1994, partito che si è affermato anche grazie alla loro diffusione riuscendo a creare quel clima di opinione favorevole che alla fine ha portato a orientare, dapprima i giornali e le tv, poi l’elettorato, circa la sua prorompente forza elettorale. Allora il «mago» fu Gianni Pilo, titolare della Diakron, poi avvicendato da Luigi Crespi con la sua Datamedia, società che nel 2001 – più o meno con le stesse modalità – riuscì a ricreare quello stesso clima di sfacciata sicurezza intorno alla vittoria elettorale, data – con quasi un anno d’anticipo – come inevitabile.
Berlusconi, anche per le sue origini decisamente «commerciali» e mercantili, la passione per i sondaggi ce l’ha nel sangue. Ma, soprattutto, ne conosce l’importanza al fine dell’influenza. Tanto che agli inizi del Duemila, Crespi cominciò una lenta quanto progressiva campagna di acquisizioni, attraverso la sua Hdc (Holding della comunicazione), di una serie di istituti di ricerca concorrenti.

Caddero nella rete Hdc, prima Datamedia, poi la Cirm di Nicola Piepoli, quindi Directa e World Ricerche, poi giornali («Punto.com») e web giornali («Il Nuovo»), società di comunicazione (Poster Up, Show Up, Metafora, Mediacomm) come se i soldi fossero infiniti e la bolla della new economy non fosse mai scoppiata. Del resto, proprio la stessa Popolare di Lodi – che poi ha chiuso i rubinetti, esigendo anche il rientro del credito concesso – ha valutato Hdc in 45 milioni di euro. E Datamedia, attraverso il consorzio Nexus, è stata anche cliente di Rai e della stessa Presidenza del Consiglio. Una ragnatela. Una diramazione strategica nella concezione berlusconiana del sondaggio abbinato alla comunicazione. Così uno come Giorgio Calò, fondatore della Directa, non fu tenero con il Cavaliere dopo che la sua società cadde nella rete di Hdc, accusandolo d’esser stato «il più grande inquinatore del mercato dei sondaggi d’opinione».

Berlusconi non lascia nulla al caso. È maniaco dei dettagli, anche se poi proprio nei dettagli ci si arrotola dentro, tanto da diventare l’arma a doppio taglio che rischia di affossarlo («È la nipote di Mubarak»). E proprio sul punto delle verità, così come dei sondaggi e delle strategie mediatiche del Cavaliere, il mondo berlusconian-mondadoriano-Mediaset è sempre molto ben abbottonato e attento a non far trapelare nulla. La parola d’ordine è: bocca ben cucita. Oppure minimizzare, sviare. Già.

«I sondaggi bisognerebbe capirli prima di giudicare» dice oggi Luigi Crespi, ritornato in auge e a capo della sua nuova società, la omonima Crespi Research, ubicata in un grande appartamento nel quartiere Prati, a Roma, a pochi passi da piazza Mazzini, mentre il fratello controlla «Clandestino web», sito di politica e commento. «Di sicuro sono uno strumento che attiene alla modernità e non all’antichità – continua – però come tutti gli strumenti sono soggetti a violazioni, alterazioni, mistificazioni. Le parole che Lei ha usato circa la presunta “dittatura dei sondaggi” potremmo allora utilizzarle per la carta stampata, il giornalismo, l’intera informazione. Si potrebbe sostenere la stessa tesi: che inventano la realtà, che condizionano l’opinione pubblica. Allora che facciamo? Aboliamo l’informazione? Aboliamo i giornalisti? Un discorso di retroguardia. Diciamo piuttosto una verità: i sondaggi servono per capire, per comprendere, per chi li fa, per chi li paga, dove va la società. Sono ricerca sul consumo. I partiti, le organizzazioni politiche hanno bisogno di questi strumenti, sostitutivi di una struttura territoriale d’un tempo, che adesso non c’è e non hanno più. A destra come a sinistra».

«Da tempo l’opinione pubblica è imprescindibile da strategie politiche e comunicative» riassume Nando Pagnoncelli, presidente dell’istituto di ricerche Ipsos. «Diciamo che il sistema del sondaggio rappresenta nel modo migliore possibile la realtà – seguita Pagnoncelli – rispetto a quella che dovrebbe essere. Anche se negli ultimi anni c’è stato un certo cambiamento e il sondaggio è stato concepito o è diventato una sorta di “propaganda strisciante”, orienta l’opinione pubblica. Il circuito media-politica-sondaggi finisce poi per legittimare le tesi in un gioco di specchi e rafforza perciò le opinioni esistenti. Un esempio? Prenda il tema della sicurezza dei cittadini. Suscita un certo allarme sociale e dopo che i media ne hanno parlato, discusso, si sono divisi, si fa un sondaggio e il risultato è che il problema della sicurezza viene certificato e al tempo stesso indotto». Come definire questa prassi? «Percezione di riflesso». Come nello specchio deformato la politica interviene, induce.

«Il problema dei sondaggi?» si chiede il politologo Ilvo Diamanti che di ricerca e lettura di dati è gran esperto. «È che si possono usare come si vogliono. Ci sono quelli taroccati e quelli raffazzonati. Ma poiché sono un genere che tira, li fanno tutti anche perché danno autorevolezza». Il punto, par di capire, è che se si vogliono far bene costano e molto. Allora spesso in mancanza di committenti forti, di budget adeguati e congrui, chi li fa li regala a un sito web, a un giornale o a una tv o li offre sottocosto in cambio d’una certa visibilità. Scavando, si scopre che ci sono tre tipi di sondaggi che si prestano a una dose di manipolazione.

Il primo caso è quello del sondaggio-spot, fatto di corsa, senza garanzie e con un budget all’osso. E con pochissimi costi. Il campione? Non più di 500 interviste, una rappresentatività che è quel che è, bassissima. Comunque non sufficiente. Con stime intorno all’1%. È il sondaggio che punta alla sola visibilità e a far citare la fonte dal medium che lo veicola. Mettiamo che si faccia un sondaggio con 600 casi e un 30-40% di risposte. Quelle buone sono 200-250. Ma come si fa a dire che un partito ha preso l’1% E lo 0,7 di 250 quant’è? Uno, due casi al massimo… No, esattamente 1,75. Un’inezia…
Il secondo caso è il sondaggio «a tesi». Fatto per sostenere teorie, un’opinione. Se non lo si ritocca nel risultato, poco ci manca. Diciamo che lo si… «addomestica».

Infine c’è quello «orientato». Un sondaggio, in genere, è sempre il risultato di un prodotto artefatto, «fatto ad arte». C’è un campione, le domande e le risposte, l’elaborazione. Va poi deciso come pubblicare i dati. E qui interviene quell’opera di «ponderazione» che è poi il tentativo di «raddrizzare» i dati (dressage). Come farlo? Adattando il campione reale a quello teorico, un’opera di bilanciamento e adattamento alle caratteristiche della popolazione reale, Non un’operazione «asettica». Però escludere o includere una delle variabili possibili finisce anche con il modificare il risultato. In genere si fa introducendo variabili a carattere socio-regionale, oppure includendo il titolo di studio dei soggetti contattati, così da stratificare ulteriormente il campione.

Sociologi, analisti, statistici raccontano spesso che i casi più clamorosi di un cosiddetto «raddrizzamento» si hanno quando si fa analisi elettorale. Che è una delle forme più ambite di ricerca, ma anche tra le più opinabili perché sono molto frequenti le «non risposte». Come vanno interpretate? Uno dei casi più frequenti è mettere a confronto le «non risposte» con i comportamenti elettorali registrati in passato. Ciò che comporta «adattare» il presente a una realtà storica o storicizzata. A ogni modo «al passato». Così, si finisce per ottenere una decina di stime diverse. Che sono tutte possibili. Realistiche. Come comportarsi? E come interpretare, soprattutto, il «non voto»? Come incasellarlo, valutarlo? Quali le variabili che s’intende far pesare di più? A che margini d’errore attenersi? La teoria è importante. Bisogna averne una, dunque un punto di vista. E, nella cosiddetta «ponderazione», variabile importante è il peso dato al voto retrospettivo, che finisce con l’ancorare il risultato della ricerca un po’ troppo al passato. Ciò che significa far fatica ad accogliere e valutare i cambiamenti. Chiosa Diamanti: «Così si contribuisce, però, a costruire la realtà e imporre l’opinione pubblica…».

Ma chi utilizza chi? I sondaggi la politica o la politica i sondaggi? Per Alessandra Ghisleri, giovane sondaggista di Euromedia research di Milano, che da tempo cura ricerca e sondaggi per conto di Silvio Berlusconi, «la società politica ha la necessità di comprendere quali sono le evoluzioni, visto che i cambiamenti sono così veloci. Ha la necessità di capire le emozioni degli elettori, le sensazioni più profonde, di studiare e studiarle. Per lei è utile conoscere la predisposizione degli italiani nei confronti della politica anche in relazione ai fatti che accadono. Certo, se fossero i sondaggi a fare la politica sarebbero tutti sondaggisti, tutti milionari… – dice con una battuta – ma non lo credo affatto».

Circa l’ipotesi di «dittatura dei sondaggi» o di «dittatura dell’opinione pubblica», la sondaggista del premier ha un’idea precisa: «Sono cose diverse. Mi sembra che proprio Milan Kundera dicesse che i sondaggi, la ricerca di mercato, sono uno degli strumenti più democratici perché chiedere alla gente che cosa preferisce vuol dire dare tutto, nel senso proprio di dare la possibilità a tutti di esprimersi. La «dittatura delle opinioni» è invece cosa assai diversa, perché ci sono un sacco di opinionisti e quindi il fatto che si dia luce mediatica a taluni sembra favorire un’opinione piuttosto che un’altra. Ma non credo nemmeno che siamo alla dittatura degli opinionisti. Più facile dire che «siamo sotto una dittatura» circa la necessità di avere informazioni. Questa fame di informazioni ci spinge sempre più a riempirci di tutti gli ingredienti, più o meno morbosi. Pensi solo alla storia delle gemelline. È un romanzo, un romanzo dei giorni nostri. I media raccontano, la gente si appassiona perché ci sono due bambine meravigliose che non si sa dove siano e poi è interessata da questa storia dove c’è un personaggio che manda queste lettere come in un film di Hitchcock… La necessità di informazione è quella. Non è dittatura, è un bisogno direi. Io, piuttosto, non vorrei vivere sotto la dittatura dell’ignoranza, ma sotto la dittatura dell’informazione sì, non le pare? Si può essere giornalista di parte e farlo con cognizione di causa e con-senso. L’informazione è fondamentale».

Per definire meglio quali sono i limiti di un sondaggio fatto al meglio, Crespi fa l’esempio delle elezioni regionali del 1999. L’istituto che all’epoca rappresentava – Datamedia – fu l’unico ad azzeccare il risultato. «Tutti gli altri sbagliarono, noi no». Che strumenti avete usato? «Prima di tutto – racconta – in quell’occasione ci fu una disponibilità di budget molto forte, che ci consentì di fare una serie di ricerche approfondite in alcune regioni dove la differenza tra gli schieramenti era minima, così da poter prevedere il risultato che rimase incerto fino all’ultimo». Quanto conta il budget? «È una variabile fondamentale, senza non si fa niente», a conferma di quel che dice Diamanti. «Consente di utilizzare diverse metodologie, di andare a fondo. Una volta bastava fare un po’ di telefonate e la gente si trovava, oggi ci si deve specializzare perché la si trova con il telefono, ma poi bisogna andare anche su internet, cercarla al telefonino. È più complicato di prima e la possibilità d’ottenere campioni rappresentativi della popolazione nazionale è più complessa».

«Spesso – puntualizza Pagnoncelli – c’è un utilizzo strumentale del sondaggio, fatto solo per convenienza, per fini comunicativi. «Sondocrazia» l’ha ribattezzata Stefano Rodotà. Un mezzo di orientamento della politica, cosicché diventa vitale misurare costantemente».
Nel 1971 il sociologo francese Pierre Bourdieu scrisse in un saggio che «l’opinione pubblica non esiste», criticando anche la diffusione dei sondaggi. Non esiste perché sarebbero gli stessi sondaggisti a crearla, plasmarla, orientarla. Con la scelta delle domande da porre e dei campioni da interrogare. Favorendo così la nascita di una realtà virtuale destinata a trasformarsi, spesso, in fatti, voti, consensi. Del rischio di un simile cortocircuito è ben consapevole Ilvo Diamanti, che non a caso cita una telefonata di qualche tempo fa del Premier a Ballarò per confutare i dati di Pagnoncelli: «Questi sondaggi sono fasulli» disse Silvio Berlusconi tirando fuori i propri. Precisa il politologo: «Un chiaro esempio di tentativo di condizionamento dell’opinione». «L’opinione sono io» amerebbe poter dire il Premier di sé. Ma anche l’opinione è di per sé opinabile. Intorno alla parola c’è conflitto, politico e cognitivo, nel tentativo ultimo, pratico quanto teorico, di darne una definizione «condivisa». Ma l’intervento del Premier in tv fu il primo tentativo de visu, anche se con il solo ausilio della voce al telefono, di confutare, contrastare, «raddrizzare», correggere il corso dell’opinione pubblica, di un pensiero che comincia a esser pubblicamente prevalente.

Scrive Luigi Crespi in L’antidoto, un libricino uscito nel 2006 nel quale narra i suoi sette anni trascorsi con Silvio Berlusconi, dal 1994 al 2001, che «per quanto riguarda il periodo della nostra collaborazione esisteva tra noi un patto: di fronte a sondaggi con risultati negativi non mi venne mai chiesto di falsificarli, bensì di non renderli noti, di non pubblicarli. (…) Quando poi lo sono diventati sappiamo com’è finita. (…) Ho sempre tentato di spiegargli che se il leader Berlusconi dava un dato e questo non trovava riscontro nella realtà indeboliva la sua immagine e la sua credibilità, perché se mentiva sui sondaggi poteva mentire su tutto». Com’è finita? «Berlusconi – si legge – ha con i sondaggi un rapporto maniacale, poiché imputa a essi un valore che va oltre il marketing, un valore evocativo e di vaticinio. Sa che un sondaggio che annuncia una vittoria favorisce l’evento della stessa. Non ha un approccio sociologico o scientifico, non ha un criterio metodologico, non gliene frega niente. Il sondaggio è propaganda, pubblicità. E nessuna campagna pubblicitaria ha l’obiettivo di dire la verità, l’unico obiettivo è valorizzare il prodotto che deve vendere. Il sondaggio è il veicolo per consegnare agli elettori-consumatori la sua percezione di uomo vincente. Un sondaggio che lo dà per perdente mina la costruzione del significato che lui stesso ha di sé».
Chiosa oggi, nell’ufficio in Prati: «Berlusconi riesce a fare cose incredibili, perché nessun leader al mondo riuscirebbe a rimanere in sella con le cazzate che dice e che fa lui, che sono clamorose. Quella telefonata alla Questura, la storia della nipote di Mubarak… Siamo di fronte a giustificazioni ardite, ma perché…?» Già, perché? «Perché questo signore nonostante tutto vince le elezioni e mantiene livelli di consenso personale sempre alti? Forse perché nessuno si domanda quanto è credibile la magistratura o l’opposizione….».
Secondo Crespi, Berlusconi riesce a recuperare sempre «saturando tutti gli spazi» e perché ha in testa un solo principio, tipicamente americano: «Over share, over market», tanto share, tanto mercato. La quantità di share che si ottiene determina anche la quantità di mercato che si detiene. È la regola commerciale. Ripetuta ai venditori di Publitalia. Ai direttori di rete e Tg, già con Mentana. Lo ha applicato alla politica. «E lui è bravissimo a occupare tutto lo share. Non si discute più del merito ma solo quel che dice lui. Ora si discute se Fini è un traditore o meno. E il mondo si dividerà su questo».
Perciò il Presidente del Consiglio convoca i direttori delle news, scatena Feltri, Sallusti, Belpietro, chiama Ferrara e si fa scrivere la proposta economica lanciata attraverso il «Corriere della Sera» o l’intervista al «Foglio». Per mettere a punto la strategia e tenere viva l’attenzione e la tensione positiva su di sé. Il suo rapporto con consenso e potere si sostanzia nella «triade dialettica» racchiusa nel circuito sondaggi-politica-media. La forza è tutta qui. Che è poi l’anomalia italiana, data dal più macroscopico conflitto d’interessi. Lasciato crescere a dismisura.
Anche Pagnoncelli condivide la tesi sul Berlusconi «che ha grande proprietà a usare gli strumenti del marketing». «Berlusconi conosce le aspettative del suo elettorato e attraverso i sondaggi le oggettivizza. I videomessaggi? Coincidono con le aspettative e l’elettorato è rimasto sempre attaccato, solo che oggi qualcosa sembra mutato perché non siamo più al 37% dei voti validi, siamo a -30… È per questo che Berlusconi, e la politica in genere, rincorre i sondaggi. La politica fa fatica a formulare proposte di medio-lungo periodo. È difficile fare le riforme, perché se le fa perde consenso. Per questo motivo l’Italia è un paese conservatore, immobile. Il paese condiziona la politica e la politica e il governo hanno abdicato». Ed è forse anche per questo che Vittorio Feltri, ha dichiarato: «Preferisco il vecchio porco», perché, come sottolinea Pagnoncelli, «si tiene la politica separata dai valori». Durerà? Secondo il sondaggista di Ipsos «nell’elettorato di Berlusconi oggi c’è scetticismo, incredulità, perché ritenuto vittima di persecuzione, ma c’è pure chi è indulgente perché l’importante è che governi».
Dice ancora Luigi Crespi: «I sondaggi non sono la democrazia, ma sono un sintomo. E io sono per la moltiplicazione degli strumenti democratici, però associare il sondaggio alla democrazia e poi al voto è pazzia. Ma qui il punto vero è che non si capisce più nulla. Se io fossi partito per un anno di Kenya tornando all’improvviso, rimarrei sconvolto: Pannella che si propone di governare con Berlusconi, Fini che attacca il premier, l’ex Presidente della Sicilia in galera e quello di Parmalat no… c’è qualcosa che non torna. Il mondo alla rovescia. E c’è chi vorrebbe dai sondaggi la verità…? La partita è truccata. Negli strumenti, nel linguaggio. Berlusconi ha plasmato la nostra società, in termini di linguaggio, cultura, valori. Oggi riempie di videomessaggi, ieri c’erano i manifesti. L’area dell’astensione è alta, intorno al 42%. Gli italiani non andranno a votare, però ci hanno convinto che Berlusconi ha già vinto nonostante Ruby. Anche nel 2008 ci hanno fatto credere che ha vinto, però ha perso 2 milioni e mezzo di voti. Il dato è stato ignorato, non pubblicizzato, tenuto nascosto, minimizzato. Oggi, con Fini fuori dal Pdl, metà delle regioni Berlusconi le perderebbe. Come perderebbe il Lazio. Eppure continua a raccontarci la storia del Fini traditore eletto con i voti del Pdl, quando è sì vero che su tutte le liste e i simboli c’era il nome di Berlusconi, ma su tutti i capolista di tutte le liste italiane era Fini in testa e fino alle ultime elezioni Fini aveva il 10%. Forse Berlusconi ha vinto grazie a Fini e non contro Fini. Questa è un’analisi oggettiva dei dati elettorali. Ora è senza Fini… E se alle ultime politiche Fini fosse stato contro Berlusconi avrebbe vinto di sicuro Veltroni. Sa, io non sono antiberlusconiano, è che mi sono rotto di Berlusconi e non ne posso più».

Un po’ di teoria non guasta. «L’Opinione Pubblica che Walter Lippman scrive, non a caso, con le iniziali maiuscole, si alimenterebbe, dunque di stereotipi e di pregiudizi. Coinciderebbe, in qualche misura, con il conformismo: l’adeguamento al pensiero dominante. Un’interpretazione che corrisponde al modello della «spirale del silenzio» tratteggiato da Noelle-Neumann negli anni Sessanta e Settanta in Germania. Da questi studi emergeva – scrive Ilvo Diamanti in un saggio che sta per essere pubblicato negli Stati Uniti – come ampi settori dell’elettorato, che non esprimevano le loro preferenze in campagna elettorale, alla fine si allineavano sulle posizioni e sulle scelte di voto dei candidati e dei partiti “favoriti”. Dati per vincenti. Il loro silenzio, in altri termini, rifletteva il timore di discostarsi dall’orientamento dominante». Un’idea, quella del «senso comune», peraltro approfondita da Gramsci a proposito dei Promessi sposi: «C’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa». Il buon senso c’era, annota Manzoni, «ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». È qui che guarda Berlusconi.
Parafrasando McLuhan, «il medium» è sempre più anche «il massaggio»…

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