Il mito della trasparenza, chimera della democrazia M5S

La trasparenza, attraverso la spia di una videocamera, di un microfono, di un professionista, non fa miracolosamente più bella la vita politica e neanche la vita in generale. Non è una scoperta recente. Per cominciare, anche la più semplice delle “trasparenze” non è innocente e ha bisogno di una regia: dove la metti la telecamera? un grandangolo sotto il muso? o un teleobiettivo per ridurre il doppio mento del politico? E poi c’è trasparenza e trasparenza, quella volontaria e quella involontaria.

La prima ha sempre bisogno di una messa in scena: anche il Movimento di Grillo adesso distingue con cura tra streaming ordinario e streaming “istituzionale”. Hanno nominato due diversi responsabili, il secondo dunque metterà la cravatta all’informazione e farà, si presume, post-produzione, taglia e cuci. Oculata decisione, ma non sarà anche una forma di controllo a distanza?

Approfondendo la questione, ci sarebbe qui da notare che se vuoi lo streaming, crudo, degli altri e non quello in casa tua, se vuoi mandare in mondovisione i tuoi avversari che litigano e però secretare i tuoi amici che si scannano, sei una trasparente canaglia. Ma la propaganda di partito non è una novità e la sua storia infinita non comincia e non si ferma qui; ciascuno pro domo sua.

La seconda, la trasparenza involontaria, ha moltiplicato le sue vittime nell’epoca elettronica. È sempre capitato l’ascolto involontario di una conversazione, fatto a volte esplosivo che può rovinare un’amicizia o un matrimonio. Ma con le tecnologie audio-video si è capito subito che il famoso “villaggio globale” di McLuhan era potenzialmente un “villaggio di vetro”, il che non era solo una bella notizia: è di vetro anche il villaggio, dell’omonimo romanzo giallo di Ellery Queen, i cui abitanti desiderano fare a pezzi con le proprie mani un imputato di omicidio.

Non è per caso che la trasparenza incrementi il rancore. Vedere quel che avviene di là dei muri produce disincanto e non solo, può intossicare l’ambiente, specialmente in un’epoca in cui alla televisione si sono aggiunti i “fuori onda”, le web tv, le intercettazioni ambientali e telefoniche, le registrazioni abusive, e non ultima, l’ondata dei wikileaks.

Tony Blair e George W. Bush hanno fatto le spese di un microfono aperto, nel luglio 2006, mentre parlavano, in tutto relax, con qualche volgarità, di Siria e Kofi Annan. Il primo ministro inglese fu umiliato dalle sue stesse parole: «Se Condi (Condoleeza Rice, allora Segretario di Stato americano) va in Medio Oriente deve ottenere risultati, io posso semplicemente andare e parlare». Non ne venne fuori una guerra (era già in corso), ma grande fu il danno al prestigio di Blair.

In un’altra occasione, in casa nostra, fu un giornalista, sul Tempo, a carpire non visto le chiacchiere, in un caffè, tra gli ex “colonnelli” di Fini: Matteoli, La Russa e Gasparri si sfogavano sul loro leader: «È malato, non lo vedete?… se serve, prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo!… non possiamo far fare le trattative a Gianfranco. Non è capace… lui dice sempre di sì». Seguirono scuse, ma fu la fine di un sodalizio.
«Questa stanza non ha più pareti ma alberi infiniti…» (Gino Paoli) è un sentimento trascendente che funziona in una relazione amorosa, ma non giova sempre alle relazioni umane. Pareti e soffitti in muratura hanno una funzione preziosa, mettono limiti a quel che si può vedere, e questo non è affatto un male, dal momento che vengono più guai dal visibile che dall’invisibile (Oscar Wilde).

Nella vita sociale gli individui si presentano diversamente nelle diverse situazioni, tenendole separate le une dalle altre. Il sociologo canadese Erving Goffman descrive l’interazione simbolica tra gli esseri umani come una messinscena teatrale: non c’è una condizione “assoluta”, siamo influenzati da dove siamo, dal quando, e da chi abbiamo accanto. Siamo sempre inevitabilmente “in scena”.
Il salto improvviso da una condizione all’altra mette disagio: è più tranquillizzante che il cliente del ristorante non veda tutto quel che accade e si dice in cucina, potrebbe esserne offeso. La mediazione cortese del cameriere ci fa sentire meglio. Un allievo americano di Goffman, Joshua Meyrowitz, ha analizzato le vastissime conseguenze sociali della abolizione delle “quinte” che i media elettronici hanno portato con sé.

Guardare sempre “dietro la tenda” è un regalo della modernità, della democrazia, dei media, ma dobbiamo constatare che questo regalo è parziale: ci libera un po’ dalla condizione di pubblico escluso, ma influenza il nostro essere sociale in modi che non erano prevedibili. La mente si è formata, fin dai primi anni di vita, nella interazione sociale nella quale le separazioni nel tempo e nello spazio regolano il nostro giudizio su noi stessi e sugli altri, il linguaggio comunica simboli e significati in modo diverso nei diversi momenti della giornata, quelli dell’intimità, quelli del lavoro, quelli della vita pubblica.
La distinzione tra il primo piano, lo spazio intermedio e il retroscena non funziona solo nella drammaturgia, ma anche nella vita ordinaria. Abbattere tutte le quinte è in certo senso disumano. (Oltre il senso del luogo,1985) È sconsigliabile che un dirigente ascolti casualmente le conversazioni o legga le email di un gruppo di subordinati; dovrebbe sistematicamente evitarlo: certe disinvolture linguistiche potrebbero ferirlo, ma potrebbero indurlo a valutazioni fatalmente sbagliate, solo perché quelle parole sono tolte dal loro contesto.

E così è bene che il politico si impegni quando si rivolge agli elettori per averne il consenso in modo diverso da quello che impiega con il suo staff. Non è ipocrisia, è una regola della vita sociale. Anche gli elettori vogliono che vada in scena in modo appropriato e senza mettersi le dita nel naso. Agire e parlare sempre come se dovessimo essere un modello universale (secondo la massima kantiana) è una pretesa sovrumana.
E certo le distanze vanno regolate e la legalità onorata. Scoprire dal registratore nell’ufficio ovale che Nixon aveva ordinato all’Fbi di sospendere le indagini sull’irruzione nel Watergate, servì a smascherare un abuso del potere. Ma smantellare ogni riservatezza nell’azione diplomatica, nella vita politica e nei nostri rapporti quotidiani può fare peggiore il mondo.

Articolo uscito su La Repubblica l’11 aprile 2003.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *