Albert Hirschman, grande riformista
Se ne è andato l’autore di exit e voice

In occasione della scomparsa del grande economista Albert O. Hirschman, pubblichiamo il capitolo che Corrado Ocone gli ha dedicato in Profili riformisti. 15 pensatori liberali per le nostre sfide (Rubbettino, 1999).

Inoltrarsi nei mille sentieri in cui si dirama il pensiero di Albert O. Hirschman è un’avvincente avventura. Pochi sono gli autori che, come lui, sanno spiazzare mostrandoci aspetti della realtà e inaspettate connessioni fra le parti di essa che prima nemmeno vagamente immaginavamo. E pochi sanno, come lui, metterci di fronte alla forza penetrante che hanno la cultura e l’intelligenza quando sono sgombre dai pregiudizi, quando non fanno riferimento a ruoli precostituiti o a tic verbali e concettuali e quando non seguono comportamenti inconsci e stereotipati. Thaumàzein, la capacità di stupire, è si può dire la cifra inconfondibile del pensiero di questo fine scienziato e interprete del nostro tempo. Il quale è anche un riformista democratico dalla cui scuola tutti abbiamo tanto da apprendere.

Hirschman, infatti, insegna a tutti noi che il riformismo non è semplicemente un’opzione politica. È invece, in maniera più radicale, il modo di corrispondere umanamente alla irriducibile complessità del mondo umano. Proponendoci sì di avvicinarci a esso per migliorarlo, ma sempre tenendo ferma e non dimenticando questa complessità. La passione per il possibile, che contraddistingue il suo pensiero e che è il titolo di un suo libro, è perciò niente affatto un programma politico minimalista: è, più radicalmente, una compiuta concezione non solo della politica ma addirittura della vita. Il metodo prettamente riformista del problem solving, con cui egli affronta le più complesse questioni della teoria e della pratica, ha perciò una giustificazione epistemologica o filosofica di cui è opportuno rendere conto con rapide incursioni nel suo «sorprendente mondo» (e questa volta l’espressione, appropriatissima, è presa dal titolo della monografia dedicata a Hirschman da Luca Meldolesi, suo allievo di Princeton e pubblicata da il Mulino nel 1995). Cominciamo il nostro excursus proprio dalla filosofia intesa nel senso più stretto della parola. In Hirschman infatti, come nei classici o fondatori della scienza economica, c’è tanta, sottintesa, filosofia. C’è prima di tutto una concezione antimetafisica e concretista della disciplina: non contemplazione di un Essere astratto, ma discussione accurata dell’«essere determinato». Nonché risoluzione, appunto, di problemi concreti e particolari. E c’è poi un modo di concepire la costruzione di teorie e modelli che è profondamente moderno, oltre che consonante con l’impostazione antimetafisica e non positivistica. Ecco, un punto fondamentale del pensiero di Hirschman è costituito dal contributo da egli offerto alla riflessione sulla natura, i limiti e il profilo della sua disciplina: l’economia. E quindi sul metodo che essa deve adottare per comprendere in modo sempre più pieno gli ambiti di realtà su cui riflette.

La prima considerazione che va fatta a tal proposito è storica. Negli ultimi duecento anni, non c’è dubbio, l’economia formalistica e quella econometrica l’hanno fatta da padrone, sgombrando quasi del tutto il campo da ogni considerazione differente del momento economico. Eppure – osserva Hirschman in una serie di memorabili riflessioni sparse un po’ in tutta la sua opera –, si è trattato in fin dei conti di una breve parentesi se rapportata al corso secolare della scienza economica, che comincia non nel Settecento, come usualmente si dice, ma qui nell’Occidente almeno con l’Etica Nicomachea di Aristotele. Oggi, all’inizio del nuovo millennio, l’economia ha bisogno di riconquistare proprio le radici classiche, cioè “totali” e umane, della scienza che si occupa della comprensione di un così fondamentale ambito della vita quotidiana. La finzione dell’individuo isolato e dell’homo oeconomicus è sicuramente utile. Eppure, si chiede ancora Hirschman, quanto è andato perduto sulla strada intrapresa dell’economia come scienza? Non è difficile dirlo, anche perché lo sconvolgimento ha interessato il concetto (filosofico quanto altri mai) di “natura umana”: ne è venuta fuori un’idea di uomo estremamente impoverita e, soprattutto, non corrispondente alla realtà effettiva dell’umanità. Bisogna pertanto oggi, a due secoli dalla rivoluzione smithiana dell’economia, «complicare» l’economia: capire che, nelle faccende umane, la ricerca della semplicità e della generalizzazione (la «parsimonia» nel linguaggio del professore emerito dell’Università di Princeton) viene pagata a caro prezzo e finisce per ottunderci la comprensione di realtà importanti e non riducibili (cfr.: Contro la parsimonia: tre modi facili di complicare alcune categorie del discorso economico, 1985; La ricerca dei paradigmi come ostacolo alla comprensione, del 1986).

Tuttavia non occorre prendere troppo sul serio, cioè nel senso sbagliato, la critica di Hirschman alla «caccia ai paradigmi» o alla «ricerca della parsimonia» propria delle teorie economiche tradizionali. Anch’egli infatti, a ben vedere, è costruttore di “paradigmi” di successo e di “parsimoniose” teorie (basti solo pensare ai modelli della lealtà, della defezione, della protesta, dell’esito, della voce). Il fatto è che da una parte egli concepisce le sue teorie come dei mobilissimi paletti aventi una mera funzione strumentale (devono aiutarci a capire qualche aspetto della realtà, mai trasformarsi in fini in sé); dall’altra, è sempre pronto a contraddirle e a complicarle con un esame più approfondito delle cose, con la valutazione di aspetti prima non considerati. È questa forte volontà di autocritica, che egli chiama «propensione all’autosovversione», che gli fa cercare ogni volta, all’apparenza con una sottile punta di snobismo intellettuale, non ciò che conferma ma quanto nega le sue tesi. Sarebbe però riduttivo veramente assimilare a una sorta di dubbio metodologico, o ad un portato connesso all’intellettualismo ebraico, questa capacità di immaginare se stesso come un Sisifo felice mentre fa rotolare egli stesso il macigno giù dalla montagna. Questa capacità è invero qualcosa di più profondo che ha a che vedere, da un punto di vista filosofico, con il suo riformismo democratico: «Ritengo che quella che ho qui chiamata autosovversione possa dare il suo contributo a una cultura più democratica, in cui i cittadini non soltanto abbiano il diritto alle loro opinioni e convinzioni, ma, cosa più importante, siano pronti a metterle in questione alla luce di nuovi argomenti e di nuovi elementi di prova».

Dai presupposti filosofici, siamo così passati a quelli antropologici del riformismo hirschmaniano. Egli fa sempre riferimento all’uomo quale realmente è: né diavolo, né santo; perfettibile, ma non perfetto. Probabilmente lo studio sulle “origini culturali” del capitalismo, fra il Seicento e il Settecento, ha lasciato una traccia indelebile nel suo pensiero, tenendolo fermamente lontano dalle utopie dell’uomo razionale e senza passioni, dell’homo oeconomicus. È ne Le passioni e gli interessi, del 1977, che Hirschman mostra come non è tanto l’etica protestante che weberianamente è all’origine dello “spirito del capitalismo”, quanto piuttosto una diversa considerazione, che poco alla volta si fece strada tra Francia e Inghilterra, del lucro e del profitto, e una diversa concezione del lusso, intesi come passioni “dolci” o “calme” in grado di temperare quelle forti e distruttive che sono foriere di ferocia e lotta. Dato che, appunto, un uomo razionale e senza passioni non è dato concepirlo, né è in verità auspicabile.

C’è poi, da un punto di vista morale, l’insistenza di Hirschman sulla necessità di un sapere pratico assimilabile per carattere alla phrònesis aristotelica. L’agire presuppone responsabilità, capacità di inserirsi nell’azione e di orientarla in una determinata direzione. L’azione non deve semplicemente seguire percorsi già stabiliti, non deve fare riferimento a «terapie» o «ricette» ortodosse. Bisogna saper misurare nelle situazioni concrete le risposte, calibrando le soluzioni e cercando un equilibrio possibile ma sempre precario. Questa virtù pratica è, in questo modo, anche una virtù politica: «Ciò di cui c’è realmente bisogno per compiere progressi riguardo ai problemi nuovi che una società incontra nel suo cammino è – secondo Hirschman – la capacità d’iniziativa politica, l’immaginazione, qui la pazienza, là l’impazienza, e altre varietà ancora di “virtù” e “fortuna”».

Un aspetto interessante da considerare è che questo impianto antimetafisico e antisistematico, questa capacità di mettersi continuamente in gioco, Hirschman l’ha derivata anche, e forse soprattutto, dalla fraterna amicizia che lo ha legato a suo cognato Eugenio Colorni negli anni fra il 1937 e il 1944 (quando quest’ultimo fu ucciso dai nazisti). «Ciò che mi affascinava era il fatto che un atteggiamento mentale svincolato da impegni ideologici fosse intimamente connesso», in lui e nel suo gruppo, «con un deciso impegno in un’attività politica palesemente pericolosa». Come dire: apertura teorica massima, intransigenza pratica sui principi. Colorni, aggiunge Hirschman, «coltivava e gustava uno stile intellettuale nel quale niente era scontato, tranne i propri dubbi».

Altri due fondamentali aspetti da considerare nel pensiero di Hirschman, fra i tanti, e procedendo sempre con un metodo fatto di rapide incursioni (che forse a lui non dispiacerebbe), è da una parte la concreta interdisciplinarietà del suo modo di pensare la scienza economica, dall’altra la capacità di aprirsi all’imprevedibile delle azioni umane. Dal primo punto di vista, Hirschman ha teorizzato l’«oltrepassamento» (The Art of Trespassing), il «passaggio di frontiere», lo «sconfinamento reciproco» fra economia e politica, ma anche fra ogni disciplina umana. Dall’altro, ha fondato la libertà degli uomini proprio sull’inatteso e il non programmabile degli eventi umani (il «possibilismo» in termini hirschmaniani). Ciò con un movimento solo in parte simile a quello di von Hayek e della Scuola austriaca, da lui aspramente criticati. L’imprevedibilità come la prevedibilità è relativa, non può essere assolutizzata. Va anch’essa accortamente calibrata. E calibrata proprio con la regolarità e le leggi delle scienze umane formalizzate. Anche in questo caso è una questione di misura. Sempre che si voglia fare scienza e non politica. Sempre che, pertanto, si sia disposti a evitare quelle «retoriche dell’intransigenza» che fondano il pensiero conservatore e reazionario.

Sì, il mondo di Hirschman è veramente sorprendente e affascinante. Ma è bello e avvincente perché è un mondo che non rassicura o dà certezze; è un universo sempre aperto al nuovo e all’imprevedibile, non dà possibilità di distrarsi o annoiarsi. È un mondo non neutrale, come quello asettico dell’economia classica, quello di Hirschman. Ma è pieno di colori e di rimandi, di sorprese come anche di cadute. Egli sa bene, perché lo ha vissuto sulla propria pelle di ebreo tedesco in fuga dal nazismo, che quando si vuole sciogliere il nodo che tiene avvinti nel mondo il bene e il male si cade nel baratro. La «passione calma» del riformismo ha il compito di ricordarcelo a ogni istante.

  1. In che manuale è possibile reperire una introduzione generale al pensiero di Albert O Hirschman?
    Grazie per l’attenzione
    Cordiali saluti

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