E col doppio turno cosa accadrebbe tra Grillo, il Pd e i resti del Cav?

Dal duro attacco alle «orde di trolls», che disturbano «da mesi» il suo blog, fino alla “caccia all’intruso” nelle proprie fila lanciata l’altro ieri. Dicono che l’ultima campagna di Beppe Grillo contro le opinioni diverse dalle sue, dal giorno della reprimenda ai dodici grillini rei, con il voto favorevole a Pietro Grasso, di aver consentito l’elezione dell’ex Procuratore nazionale antimafia al vertice di Palazzo Madama, sia un vero segno di debolezza. Della tenuta del leader del M5S in primo luogo.

Che mal si raccorda e acconcia con la necessità della dialettica interna, all’emergere di sfumature e difformità di vedute sempre più palesi, come testimonia anche l’analisi di Ilvo Diamanti, lunedì 25 marzo su “la Repubblica” quando racconta del sondaggio dell’Osservatorio elettorale LaPolis dell’Università di Urbino, secondo il quale l’ipotesi di accordo tra Pd e M5S a sostegno di un nuovo governo «otterrebbe il favore del 55% degli elettori. E di una quota molto più elevata fra quelli di centrosinistra, ma anche di centro». Ma pure di quelli del M5S: «I favorevoli si riducono al 54, i contrari al 45». Anche se si osservano orientamenti molto diversi tra loro, annota il sociologo della politica.

Perciò la demonizzazione come frusta e riflesso d’ordine è un richiamo al “serrate le fila”. Riuscirà nell’intento o finirà, invece, per far implodere il MoVimento, a cominciare dalle sue forme rappresentative alla Camera e al Senato? «Ha bisogno di tenerli uniti. Fino a quando, almeno, le consultazioni di Bersani si saranno concluse» chiosa Diamanti. Un’azione preventiva anti-tradimento, meglio anti-ribaltone come avrebbe detto a suo tempo Bossi, negli anni d’oro della Lega, il Carroccio in auge, sentinella della tenuta democratica, azionista di riferimento del centrodestra, prima di giubilare Berlusconi alla fine del 1994.
«Da mesi orde di trolls, di fake, di multinick, scrivono con regolarità dai due ai tremila commenti al giorno sul blog. Qualcuno evidentemente li paga per spammare dalla mattina alla sera». Già, «chi li paga?» Se lo chiedeva anche «l’Unità» all’indomani dell’uscita in edicola della prima copia de “il manifesto”, il 28 aprile 1971. Riflesso “stalinista” contro i dissenzienti, fu la lettura unanime dinanzi a quell’interrogativo. Metodi che si pensava caduti in disuso o nel dimeticatoio, superati progressivamente dal crollo di molti muri ideologici, pre e post Berlino 1989. Evidentemente non è così per certe mentalità. Modi di essere e di pensare. Che vedono sempre il nemico all’erta fuori, dietro e dentro se stessi. Forse anche per mancanza di convinzione di sé o di autostima nel proprio pensiero e nelle proprie azioni conseguenziali al primo. Ma la rampogna contro gli «schizzi di merda digitali» sarà utile alla chiamata alle armi o, invece, rischia di aprire un solco nella tenuta e nelle tante contraddizioni del MoVimento, dando spazio all’apertura di nuove microfratture che possono diventare vere e proprie crepe?

In questo senso Grillo e Berlusconi sono uguali, speculari. Radicalizzano lo scontro nei momenti di debolezza. Chiamano alle armi per superare le contraddizioni, ridurre la dialettica, coprire i distinguo dentro un frastuono assordante. Berlusconi rinserra le fila incitando alla piazza nei momenti di difficoltà, si fa estremista, “uomo da predellino”, capopopolo e capomanipolo manipolando la realtà. Specie sotto elezioni e così riesce persino a recuperare decimali, percentuali come si è visto anche nell’ultima tornata elettorale quando tutti lo davano per sconfitto, irrisollevabile (il centrosinistra in primis), in un quadro disastroso in cui il centrodestra berlusconiano ha lasciato sul terreno 6 milioni e mezzo di voti rispetto al 2008. Urla, alza i toni dello scontro. Insofferente alla dialettica, alle opinioni diverse (Fini e non solo). Quando è al governo, pur con maggioranze bulgare che gli avrebbero potuto consentire di governare in modo ancor più disinvolto di quanto non abbia davvero fatto, si lamenta e dice che «il premier non conta nulla» e «non ha poteri adeguati per governare», che «bisogna rivedere la Costituzione», che «al Colle siede un signore che sindaca sul capello e rinvia le leggi alle Camere», ecc, ecc. Grillo, dall’altro lato, chiede «il cento per cento» del prossimo Parlamento. Altrimenti la democrazia è monca, dice lui. E non si può governare.

Ma intanto abbiamo il Porcellum, che l’ha varato l’asse Pdl-Lega e non si può governare ugualmente, nonostante i premi di maggioranza alla Camera dove il Pd ha 340 seggi, perché il Senato «È rimasto in bilico» con una maggioranza troppo risicata per poter ratificare le leggi e i provvedimenti che arrivano da Montecitorio. Proprio stamane alcuni giornali fanno notare che «anche Bush ha vinto con un solo voto, ma poi ha governato» ricordando l’esito dello scontro con Al Gore nelle presidenzali americane del 2000. Qui succede invece, che il Pd – che le elezioni di fatto le ha vinte, per percentuali e seggi, si trova a dover subire l’offensiva del Pdl che le elezioni le ha certamente perse, essendo arrivato persino terzo dopo Grillo, e i veti di quest’ultimo che delle elezioni è solamente il “vincitore morale” perché ha ottenuto in un sol colpo 8 milioni di voti partendo però da zero, come fa notare il politologo Piero Ignazi oggi in un commento su “la Repubblica”: «Oggi invece assistiamo ad un Berlusconi che impone – o per lo meno cerca di imporre – le sue scelte ed è pronto con il suo 30% a scatenare le piazze e a impedire alle Camere di lavorare, mentre il Pd se ne sta come un agnellino tremante ad attendere che sorte gli toccherà, senza avere il coraggio delle proprie scelte». Già.

Resta in ogni caso inevaso un interrogativo fondamentale, posto per altro ieri lunedì sera a Bologna (25 marzo) da Domenico Cella, presidente dell’Istituto De Gasperi, nel corso di un incontro di studio sul MoVimento 5 Stelle (organizzazione, attivisti, programmi, elettori), e che potremmo quasi chiamare come la “prova del nove” della prossima legislatura, la sfida, il colpo d’ala necessario per assicurare a questo Paese un quadro elettorale e politico certo e salutare: «Poniamo il caso che per uno scherzo o un regalo della Provvidenza questo sistema politico si desse un sistema elettorale a doppio turno ala francese. Bene – s’è chiesto Cella -, nello scontro a tre (Pd, Pdl, M5S) quale sarebbe la forza che rimarrebbe sul terreno? Chi sarebbe sbalzato fuori dall’arena politica? La destra, Grillo o il centrosinistra?» Insomma, dei tre, quattro competitor (se mettiamo anche la Lista Civica di Mario Monti), quali sarebbero le due forze che resterebbero in campo a fare, l’una la maggioranza, l’altra l’opposizione? Già, bella domanda.

Ma la prossima legislatura dovrebbe riuscire a risolvere l’arcano del nostro sistema politico ed elettorale, permettendogli di uscire da questa eterna transizione. Che è impasse, se non vero e proprio perdurante stallo. Grillo o non Grillo. Anche perché, se malauguratamente si dovesse andar a nuove elezioni, non è detto che Grillo stacchi lo stesso numero di biglietti del primo spettacolo.

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