Da Soros una spinta, avanti con gli eurobond

L’obiettivo della mia visita oggi è discutere della crisi dell’euro. Alla luce degli ultimi eventi, penso che sarete tutti concordi nel sostenere che la crisi sia tutt’altro che risolta. Ha già provocato danni tremendi sia a livello finanziario che politico oltre ad aver causato perdite umane. La crisi ha anche trasformato l’Unione europea in qualcosa di radicalmente differente dall’intento originario. L’Unione europea doveva essere un’associazione volontaria di Stati alla pari ma la crisi l’ha trasformata in una gerarchia con la Germania e altri creditori al comando e i Paesi altamente indebitati relegati allo status di seconda classe. Se, da un lato, la Germania non può dettare alcuna politica, in pratica nessuna politica può essere proposta senza aver prima ottenuto il consenso della Germania. A peggiorare le cose c’è la politica di austerità promossa dalla Germania, che ha l’effetto di prolungare la crisi e perpetuare la subordinazione dei Paesi debitori.

Questa situazione ha creato tensioni politiche come dimostra lo stallo politico dell’Italia. L’Italia ora ha una maggioranza che si oppone all’euro e il trend è in aumento. Esiste al momento un pericolo reale che la crisi dell’euro possa terminare distruggendo l’Unione europea. Una disintegrazione disordinata lascerebbe l’Europa in una situazione ben peggiore rispetto al momento in cui fu avviato l’audace esperimento di creare un’Unione europea. Sarebbe una tragedia di proporzioni storiche. Può essere evitata solo con la leadership della Germania. La Germania non ha cercato di occupare una posizione dominante ed è stata restia ad accettare responsabilità e obblighi ad essa correlati. Questa è una delle ragioni per cui è nata l’attuale situazione. Ma volente o nolente, la Germania è al posto di comando ed è per questo che sono qui oggi.

Come ha fatto l’Europa a cacciarsi in un caos del genere? E come ne può uscire? Queste sono le due domande che vorrei affrontare. La risposta alla prima domanda è estremamente complicata perché la crisi dell’euro è estremamente complessa. Ha una dimensione sia politica che finanziaria. E quest’ultima può essere suddivisa almeno in tre componenti: una crisi del debito sovrano, una crisi bancaria e divergenze sul fronte della competitività. I vari aspetti sono interconnessi, rendendo i problemi talmente complicati da lasciare impressionati. A mio avviso la crisi dell’euro non può essere compresa appieno senza capire il ruolo cruciale che errori e false convinzioni hanno rivestito nel crearla. La crisi è stata quasi unicamente endogena. È come se fosse un incubo.

La risposta alla seconda domanda è invece estremamente semplice. Una volta compresi esattamente i problemi la soluzione praticamente viene da se.

Sono del parere che la Germania abbia un’ampia fetta di responsabilità per gli errori politici che hanno creato la crisi. Ma vorrei chiarire anticipatamente che non sto dando la colpa alla Germania. Chiunque fosse stato al comando avrebbe commesso errori simili. Per esperienza personale posso dire che nessuno avrebbe potuto comprendere la situazione in tutta la sua complessità nel momento in cui si è rivelata.

Mi rendo conto che rischio di inimicarmi i presenti facendo ricadere la responsabilità sulla Germania. Ma solo la Germania può mettere le cose a posto. Credo profondamente nell’Unione europea e non voglio vederla distrutta. Mi preoccupo anche dell’enorme e inutile sofferenza umana che la crisi dell’euro sta causando e vorrei fare tutto il possibile per attenuarla. La mia interpretazione della crisi dell’euro è molto diversa dalle idee prevalenti in Germania. Spero che mostrandovi una prospettiva diversa possiate riconsiderare la vostra posizione prima che vengano fatti altri danni. Questo è lo scopo della mia visita qui.

L’Unione europea era un progetto ambizioso che aveva acceso l’immaginazione di molte persone, inclusa la mia. Consideravo l’Unione europea come l’incarnazione di una società aperta – un’associazione volontaria di stati alla pari che rinunciavano a parte della loro sovranità per la res comune. L’Unione europea contava cinque grandi Stati membri e un numero di piccoli Stati e tutti avevano accettato i principi di democrazia, libertà individuale, diritti umani e stato di diritto. Nessuna nazione o nazionalità occupava una posizione dominante.

Il processo di integrazione fu guidato da un esiguo gruppo di statisti lungimiranti che riconobbero che la perfezione era irraggiungibile e praticarono ciò che Karl Popper chiamava ingegneria sociale frammentaria. Si erano imposti obiettivi limitati e scadenze ferme e avevano mobilitato la volontà politica per fare un piccolo passo avanti, ben sapendo che una volta raggiunto, la sua inadeguatezza sarebbe diventata chiara e avrebbe richiesto un ulteriore passo avanti. Il processo si nutriva del proprio successo, esattamente come una sequenza “boom-bust” dei mercati finanziari. Ed è così la Comunità del carbone e dell’acciaio si è gradualmente trasformata in Unione europea, passo dopo passo.

La Francia e la Germania erano in prima linea in questa impresa. Quando l’impero sovietico iniziò a sgretolarsi, i leader tedeschi capirono che la riunificazione era possibile solo nel quadro di un’Europa più unita ed erano preparati a fare importanti sacrifici per raggiungere tale scopo. Quando si trattava di trovare un accordo, erano disposti a dare di più e prendere un po’ meno di altri, così agevolando le contrattazioni. Inoltre gli statisti tedeschi sostenevano che la Germania non aveva una politica estera indipendente, ma solo una politica europea. Ciò ha portato a una drammatica accelerazione del processo, che culminò con la riunificazione della Germania nel 1990 e la sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel 1992. Questo momento fu seguito da un periodo di consolidamento che durò fino alla crisi finanziaria del 2007-8.

Sfortunatamente, il Trattato di Maastricht era viziato. Gli architetti dell’euro riconobbero che si trattava di un concetto incompleto: un’unione monetaria senza un’unione politica. Gli architetti avevano però ragione di credere che in caso di necessità la volontà politica avrebbe potuto fare il passo successivo. Dopo tutto, così aveva funzionato il processo di integrazione fino a quel momento.

Ma l’euro aveva molti altri difetti, di cui non erano pienamente consapevoli né gli architetti né gli Stati membri. Il Trattato di Maastricht, ad esempio, dava per scontato che solo il settore pubblico potesse produrre deficit cronici dal momento che il settore privato avrebbe corretto sempre i propri eccessi. La crisi finanziaria del 2007-8 ha dimostrato che quell’assunto era sbagliato. La crisi finanziaria ha rivelato anche un difetto quasi fatale nella costruzione dell’euro: creando una banca centrale indipendente, i Paesi membri si sono indebitati in una moneta che non controllavano, così esponendosi al rischio di default.

I Paesi sviluppati non hanno motivo di andare in default; possono sempre stampare moneta. La loro moneta può deprezzarsi in valore, ma il rischio di default è praticamente inesistente. I Paesi meno sviluppati che devono, invece, contrarre prestiti in una moneta estera incorrono nel rischio di default. A peggiorare la situazione ci si mettono i mercati finanziari, che possono davvero spingere questi Paesi in default attraverso assalti organizzati a un titolo (c.d. “bear raids”). Il rischio di default relegava alcuni Paesi membri allo status di paese del terzo mondo che si era indebitato in una moneta estera.

Prima della crisi finanziaria del 2007-8 sia le autorità che i mercati finanziari ignoravano questo aspetto dell’euro. Quando fu introdotto l’euro, i titoli di stato erano considerati senza rischio. Gli enti di vigilanza consentirono alle banche commerciali di acquistare quantità illimitate di titoli di stato senza accantonare capitale proprio e la Banca centrale europea accettò tutti i titoli di stato con la sua finestra di sconto a parità di condizioni. Si innescò quindi un perverso incentivo tale per cui le banche commerciali accumulavano i titoli dei Paesi membri più deboli, che pagavano tassi più alti, allo scopo di guadagnare alcuni punti base extra. Di conseguenza, i differenziali dei tassi di interesse tra i vari titoli di stato praticamente scomparvero.

La convergenza dei tassi di interesse ha causato una divergenza nelle performance economiche. I Paesi cosiddetti periferici, Spagna e Irlanda in primis, hanno attraversato boom immobiliari, degli investimenti e dei consumi che li hanno resi meno competitivi, mentre la Germania, appesantita dai costi della riunificazione, si è concentrata sul mercato del lavoro e su altre riforme strutturali che l’hanno resa più competitiva.

Nella settimana successiva la bancarotta di Lehman Brothers, i mercati finanziari globali hanno letteralmente cessato di funzionare e sono stati mantenuti in vita artificialmente. Tale situazione ha richiesto la sostituzione del credito sovrano (sotto forma di garanzie della Banca centrale e deficit di bilancio) con il credito delle istituzioni finanziarie la cui condizione era pregiudicata. L’enfasi riposta sul credito sovrano ha rivelato un aspetto fino ad allora ignorato dell’euro, ossia che creando una banca centrale indipendente i Paesi membri dell’euro rinunciavano a parte del loro status sovrano.

Questo avrebbe dovuto essere il momento in cui fare il passo successivo verso l’unione fiscale e monetaria, ma la volontà politica latitava. La Germania, appesantita dai costi della riunificazione, non era più in prima linea sul fronte dell’integrazione. La cancelliera Merkel ha correttamente letto l’opinione pubblica quando ha dichiarato che ciascun Paese dovrebbe badare alle proprie istituzioni finanziarie e che non tocca all’Unione europea farlo a livello collettivo. Questo è stato un passo indietro. A posteriori dico che si è trattato dell’inizio di un processo di disintegrazione.

I mercati finanziari ci hanno messo più di un anno per comprendere le implicazioni della dichiarazione della cancelliera Merkel, dimostrando che anch’essi funzionano con informazioni tutt’altro che perfette. Solo alla fine del 2009, quando fu rivelata la portata del deficit greco, i mercati finanziari capirono che un Paese membro poteva davvero andare in default. Poi i mercati hanno aumentato senza mezzi termini i premi sui rischi per i Paesi più deboli. Questa mossa ha reso le banche commerciali, i cui bilanci erano appesantiti da quei titoli, potenzialmente insolventi e ha creato sia un debito sovrano che una crisi bancaria. I due aspetti sono legati come gemelli siamesi.

Esiste una stretta corrispondenza tra la crisi dell’euro e la crisi bancaria internazionale del 1982. Allora il Fmi e le autorità bancarie internazionali salvarono il sistema bancario internazionale prestando sufficiente denaro ai Paesi pesantemente indebitati per consentire loro di evitare un default anche a costo di spingerli in una perdurante depressione. L’America latina ha sofferto un decennio perduto.

Oggi la Germania sta giocando lo stesso ruolo che all’epoca fu del Fmi. Lo scenario differisce, ma l’effetto è lo stesso. I creditori stanno di fatto spostando l’intero peso dell’aggiustamento sui Paesi debitori e stanno evitando la propria responsabilità per gli squilibri. Fatto interessante, i termini “centro” e “periferia” sono entrati nell’uso comune passando quasi inosservati, sebbene in termini politici sia ovviamente inappropriato descrivere Italia e Spagna come la periferia dell’Unione europea. In effetti, però, l’euro ha trasformato i loro titoli di stato in titoli da paesi del terzo mondo che corrono il rischio di default. Questo fato è stato ignorato dalle autorità e tuttora non viene adeguatamente riconosciuto. Questa è stata la causa primaria della crisi dell’euro.

Proprio come negli anni Ottanta, tutta la colpa e il peso sono ricaduti sulla “periferia” e la responsabilità del “centro” non è mai stata riconosciuta adeguatamente. I Paesi periferici vengono criticati per la mancanza di disciplina fiscale e di etica del lavoro, ma c’è dell’altro. Certamente, i Paesi periferici devono fare delle riforme strutturali, proprio come ha fatto la Germania dopo la riunificazione. Ma negare che l’euro stesso abbia problemi strutturali da correggere vuol dire ignorare la causa primaria della crisi dell’euro. Eppure questo è ciò che sta accadendo.

In questo contesto la parola tedesca “Schuld” riveste un ruolo chiave. Come sapete significa sia debito e responsabilità che colpa. Così facendo è stato naturale o “selbstverständlich” per l’opinione pubblica tedesca incolpare i Paesi altamente indebitati per la loro sventura. Il fatto che la Grecia abbia evidentemente infranto le regole ha contribuito a sostenere questo atteggiamento. Ma altri Paesi come Spagna e Irlanda hanno giocato secondo le regole; la Spagna veniva infatti considerata un modello di virtù. È chiaro che le colpe sono sistemiche e le sventure dei Paesi altamente indebitati sono in gran parte causati dalle regole che governano l’euro. Questo è il messaggio che vorrei far passare oggi.

A mio giudizio, la “Schuld” o responsabilità del “centro” è addirittura maggiore oggi di quanto non fosse nella crisi bancaria del 1982. Avrebbe potuto essere politicamente accettabile nel 1982 infliggere l’austerità ai Paesi meno sviluppati allo scopo di salvare il sistema finanziario internazionale; ma farlo oggi all’interno dell’Eurozona non può essere conciliabile con l’Unione europea come associazione volontaria di stati membri a pari titoli. Esiste un conflitto irrisolto tra ciò che è dettato dalla necessità finanziaria e ciò che è politicamente accettabile. Questo è il punto cui avrebbero dovuto arrivare le recenti elezioni italiane.

Il peso della responsabilità ricade principalmente sulla Germania. La Bundesbank ha contributo a realizzare il progetto dell’euro i cui difetti hanno messo la Germania al posto di comando. Questo ha creato due problemi. Uno è politico, l’altro finanziario. È la combinazione dei due che ha reso la situazione così problematica.

Il problema politico è che la Germania non ha cercato la posizione dominante in cui è stata spinta e non è disposta ad accettare gli obblighi e le responsabilità ad essa correlati. La Germania non vuole comprensibilmente essere la “tasca profonda” dell’euro. Pertanto allunga solo una mano di aiuto per evitare il default ma nulla di più, e non appena la pressione dei mercati finanziari si attenua, cerca di inasprire le condizioni da cui dipende l’aiuto.

Il problema finanziario è che la Germania sta imponendo le politiche sbagliate sull’Eurozona. L’austerità non funziona. Non si può limitare il peso del debito limitando il deficit di bilancio. Il peso del debito è il rapporto tra debito accumulato e il Pil, entrambi espressi in termini nominali. E in condizioni di domanda inadeguata, i tagli al bilancio causano una riduzione più che proporzionata del Pil – in termini tecnici il cosiddetto moltiplicatore fiscale è maggiore di uno.

I tedeschi non riescono a comprendere questa situazione. Le riforme fiscali e strutturali intraprese dal governo Schroeder funzionavano nel 2006; perché non dovrebbero funzionare per l’Eurozona qualche anno più tardi? La risposta è che l’austerità funziona aumentando le esportazioni e riducendo le importazioni. Quando tutti fanno la stessa cosa semplicemente non funziona.

La crisi dell’euro ha raggiunto il culmine la scorsa estate. I mercati finanziari iniziavano a prevedere un possibile tracollo e i premi sui rischi raggiunsero livelli insostenibili. In ultima istanza, la cancelliera Merkel ha sostenuto il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, contro il proprio candidato, Jens Weidmann. Draghi si è dimostrato all’altezza della situazione. Ha dichiarato che la Bce avrebbe fatto “qualunque cosa” per proteggere l’euro e ha lanciato il cosiddetto piano di “operazioni sul mercato aperto” (Open Market Transactions). I mercati finanziari furono riassicurati e si imbarcarono in un potente relief rally. Ma esultare sarebbe stato prematuro. Una volta attenuatasi la pressione dei mercati finanziari, la Germania iniziò a ritrattare le promesse fatte al culmine della crisi.

Nel salvataggio di Cipro, la Germania è stata eccessiva. Per minimizzare i costi del salvataggio ha insistito per salvare i depositanti bancari. È stato prematuro. Se fosse capitato dopo la creazione di un’unione bancaria e la ricapitalizzazione delle banche, avrebbe potuto essere una mossa saggia. Ma arrivava in un momento in cui il sistema bancario veniva retrocesso a silos nazionale e rimaneva molto vulnerabile. Quello che è successo a Cipro ha compromesso il modello economico delle banche europee, che si affida fortemente sui depositi. Fino ad ora le autorità hanno fatto di tutto per proteggere i depositanti. Cipro ha cambiato le cose. L’attenzione è focalizzata sull’impatto del salvataggio su Cipro ma l’impatto sul sistema bancario è ancora più importante. Le banche dovranno pagare i premi sui rischi che ricadranno pesantemente sulle banche deboli e sulle banche dei Paesi più deboli. Questo nesso insidioso tra il costo del debito sovrano e il debito bancario sarà rafforzato. Le sperequazioni saranno ancor più forti di prima.

Alla cancelliera Merkel sarebbe piaciuto congelare la crisi dell’euro almeno fino a dopo le elezioni, ma la crisi è tornata in vigore. I tedeschi potrebbero non esserne a conoscenza perché Cipro è stata una tremenda vittoria politica per la cancelliera Merkel. Nessun Paese oserà sfidare la sua volontà. Inoltre, la Germania stessa resta relativamente immune alla profonda depressione che sta inghiottendo l’Eurozona. Prevedo, tuttavia, che prima delle elezioni anche la Germania entri in recessione. Perché la politica monetaria perseguita dall’Eurozona non è in sincrono con le altre valute principali, che sono coinvolte nell’alleggerimento monetario. La Banca del Giappone è stata l’ultima a resistere ma ha cambiato fronte recentemente. Uno yen più debole insieme alla debolezza dell’Europa è destinato a incidere sull’export della Germania.

Se la mia analisi è corretta, una soluzione semplice viene da se. Può essere riassunta in un’unica parola: eurobond.

Gli eurobond sono obbligazioni garantite in solido da tutti gli Stati membri. Se i Paesi che si attengono al Fiscal Compact potessero convertire l’intero stock esistente di debito pubblico in eurobond, l’impatto positivo rasenterebbe il miracolo. Il pericolo di default svanirebbe e così i premi sul rischio. I bilanci delle banche riceverebbero un incentivo immediato, e così anche i bilanci dei Paesi altamente indebitati perché costerebbe meno onorare lo stock esistente di titoli di debito. L’Italia, ad esempio, risparmierebbe il quattro percento del Pil. Il suo bilancio si trasformerebbe in surplus e invece dell’austerità il governo potrebbe applicare stimoli fiscali. L’economia crescerebbe e il debt ratio scenderebbe. Gran parte dei problemi apparentemente intrattabili svanirebbe nel nulla. Solo le divergenze di competitività resterebbero irrisolte. I singoli Paesi avrebbero ancora bisogno di riforme strutturali, ma il principale difetto strutturale dell’euro sarebbe curato. Sarebbe come svegliarsi dall’incubo.

Il Fiscal Compact fornisce adeguate tutele contro il rischio implicato in una obbligazione garantita in solido. In accordo con il Fiscal Compact i Paesi membri potranno emettere nuovi bond e banconote solo per sostituire quelli in scadenza, ma nulla di più; dopo cinque anni, il debito scaduto sarebbe gradualmente ridotto al 60% del Pil. Se un Paese non fosse conforme, sarebbe penalizzato con una riduzione della quantità di eurobond da poter emettere; dovrebbe contrarre prestiti per il saldo a nome proprio e pagare pesanti premi sui rischi.

La Germania si oppone agli eurobond, convinta che una volta introdotti non vi sia alcuna garanzia che i cosiddetti Paesi periferici non infrangano nuovamente le regole. Credo che questi timori siano infondati. Perdere il privilegio di emettere eurobond e dover pagare pesanti premi sui rischi sarebbe un potente incentivo alla conformità. La penale sarebbe così dolorosa che le regole dovrebbero invocare piccole dosi per non aggravare troppo bruscamente la posizione finanziaria del Paese offeso. Allo stesso tempo l’autorità fiscale responsabile eserciterebbe controlli più severi e la disobbedienza sarebbe punita con ulteriori riduzioni nella quantità di eurobond da emettere. Nessun governo potrebbe resistere a una tale pressione.

Ci sono anche diffusi timori che gli eurobond rovinerebbero il rating di credito della Germania. Gli eurobond sono spesso paragonati al Piano Marshall. L’idea è che il Piano Marshall sia costato solo alcuni punti percentuali del Pil americano mentre gli eurobond costerebbero di più in rapporto al Pil della Germania. Si tratta però di due cose molte diverse tra loro. Il Piano Marshall è stata una spesa reale mentre gli eurobond implicherebbero una garanzia che non sarà mai richiesta. I costi del consenso della Germania agli eurobond sono stati ampiamente esagerati.

Le garanzie hanno una caratteristica peculiare: più sono convincenti, meno probabilità hanno di essere richiamate. Gli Usa non hanno mai dovuto pagare il debito che incorreva quando convertivano il debito dei singoli Stati in obbligazioni federali. La Germania è disposta a fare solo il minimo; è per questo che ha dovuto continuare ad aumentare i propri impegni e sta incorrendo in perdite reali. Il Fiscal Compact, sostenuto da una ben funzionante Autorità fiscale praticamente eliminerebbe il rischio di default. Gli eurobond reggerebbero bene il confronto con i bond di Usa, Regno Unito e Giappone nei mercati finanziari. Certamente, la Germania dovrebbe pagare di più sul proprio debito di quanto faccia oggi ma i rendimenti eccezionalmente bassi sui Bund sono un sintomo della malattia che sta attanagliando la periferia. I benefici indiretti che la Germania trarrebbe dalla ripresa della periferia sarebbero nettamente superiori ai costi aggiuntivi sostenuti sul proprio debito nazionale.

Gli eurobond non sono però la panacea. Prima di tutto, il Fiscal Compact stesso è uno strumento mal progettato. L’introduzione degli eurobond darebbe un incentivo all’Eurozona ma potrebbe non essere abbastanza. In questo caso servirebbero altri stimoli fiscali o monetari. Ma sarebbe un lusso avere un problema di questo tipo.

In secondo luogo, l’Unione europea necessita altresì di un’unione bancaria e di un’unione politica. Il salvataggio di Cipro ha reso queste necessità più pressanti, mettendo in discussione il modello economico delle banche europee che si affidano agli ampi depositi.

La principale limitazione degli eurobond è che non eliminerebbero le divergenze di competitività. I singoli Paesi avrebbero ancora bisogno di intraprendere riforme strutturali. Quelli che non ci riescono si trasformerebbero in sacche permanenti di povertà e dipendenza simili a quelli che persistono in molti Paesi ricchi. Sopravvivrebbero con il supporto limitato dei Fondi strutturali europei e delle rimesse. Ma l’accettazione degli eurobond da parte della Germania cambierebbe totalmente l’atmosfera politica e agevolerebbero le riforme strutturali altresì necessarie.

Resta il fatto che la maggior parte dei tedeschi è fermamente contraria agli eurobond. Da quando la cancelliera Merkel ha posto il veto sugli eurobond, le argomentazioni che ho qui prospettato non sono nemmeno state prese in considerazione. Le persone non comprendono che acconsentire agli eurobond sarebbe nettamente meno costoso che fare solo il minimo indispensabile per preservare l’euro.

Tocca alla Germania decidere se è disposta o no ad autorizzare gli eurobond. Ma non ha alcun diritto di evitare che i Paesi altamente indebitati scappino dalla loro miseria aggregandosi ed emettendo eurobond. In altre parole, se la Germania si oppone agli eurobond dovrebbe prendere in considerazione l’idea di lasciare l’euro e lasciare che gli altri Paesi li introducano.

Questo progetto produrrebbe un risultato sorprendente: gli eurobond emessi da un’Eurozona che esclude la Germania reggerebbero ancora bene il confronto con quelli di Usa, Regno Unito e Giappone. Il debito netto di questi tre Paesi in proporzione al Pil è attualmente superiore a quello dell’Eurozona senza la Germania.

Questo risultato sorprendente può essere spiegato confrontando le conseguenze di un abbandono dell’euro da parte della Germania con l’abbandono da parte di un Paese altamente indebitato, come l’Italia.

Dal momento che tutto il debito accumulato è denominato in euro, la differenza la fa quale Paese resta al comando dell’euro. Se la Germania dovesse abbandonare, l’euro si deprezzerebbe. I Paesi debitori riguadagnerebbero competitività. Il debito diminuirebbe in termini reali e, se emettessero eurobond, la minaccia di default svanirebbe. Il debito diverrebbe improvvisamente sostenibile. Gran parte del peso di aggiustamento ricadrebbe sui Paesi che hanno lasciato l’euro. Le loro esportazioni diverrebbero meno competitive e incontrerebbero una dura concorrenza dell’area euro nei loro mercati nazionali. Subirebbero altresì perdite sui loro titoli e investimenti denominati in euro. La portata delle perdite dipenderebbe dalla portata del deprezzamento; quindi avrebbero un interesse nel mantenere il deprezzamento entro i limiti. Dopo le dislocazioni iniziali, l’eventuale risultato realizzerebbe il sogno di John Maynard Keynes di un sistema valutario internazionale in cui sia creditori che debitori sono corresponsabili nel mantenere la stabilità. E l’Europa eviterebbe una depressione imminente.

Se fosse l’Italia ad abbandonare, il suo debito denominato in euro diverrebbe insostenibile e andrebbe ristrutturato. Questa situazione getterebbe il resto d’Europa in un tracollo finanziario, fatto che potrebbe rivelarsi superiore alla capacità delle autorità monetarie di contenerlo. Il collasso dell’Euro porterebbe con buona probabilità a una disintegrazione disordinata dell’Unione europea e l’Europa resterebbe in una condizione peggiore rispetto al periodo di avvio del nobile esperimento di creare l’Unione europea.

Ovviamente, sarebbe meglio che lasciasse la Germania e non l’Italia e cosa altrettanto ovvia, sarebbe meglio che la Germania approvasse gli eurobond invece di lasciare l’euro. Il problema è che la Germania non è stata messa di fronte a una scelta e ha un’altra alternativa a disposizione: può procedere sul percorso attuale, sempre facendo il minimo per preservare l’euro, e nulla di più.

Se la mia analisi è corretta, questa non è la migliore alternativa nemmeno per la Germania, se non nell’immediato futuro. La situazione si sta deteriorando e alla fine diverrà insostenibile. Più i tempi saranno lunghi, maggiori saranno i danni. Ciò nonostante, è la scelta preferibile per la Germania, almeno fino a dopo le elezioni.

È necessario che la Germania scelga definitivamente se accettare gli eurobond o lasciare l’euro. È il motivo per cui sono venuto qui.

Ho riflettuto a lungo sulla possibilità di presentare le mie argomentazioni ora o se attendere fino alla fine delle elezioni. In ultima analisi ho deciso di andare avanti, sulla base di due considerazioni. Una è che gli eventi hanno una loro dinamica e la crisi diverrà con tutta probabilità più intensa anche prima delle elezioni. Il salvataggio di Cipro mi ha dato ragione. L’altra è che la mia interpretazione degli eventi è così radicalmente differente da quella prevalente in Germania che ci vorrà del tempo per assimilarla, e prima inizio meglio è.

Lasciate che io riassuma le mie argomentazioni. Sostengo che l’Europa starebbe meglio se la Germania decidesse tra eurobond e uscita dall’euro che se continuasse sul suo cammino di fare il minimo per mantenere l’euro insieme. Questo discorso vale sia che la Germania accetti gli eurobond sia che decida di lasciare l’euro; e vale non solo per l’Europa ma anche per la Germania, se non per l’immediato futuro.

Quale delle due alternative sia meglio per la Germania è meno chiaro. Solo l’elettorato tedesco è in grado di decidere. Se fosse indetto oggi un referendum, gli scettici dell’euro vincerebbero a mani basse. Ma una più approfondita considerazione potrebbe cambiare l’opinione delle persone. Scoprirebbero che il prezzo da pagare in caso di accettazione degli eurobond da parte della Germania è stato ingigantito e il prezzo per l’uscita dall’euro minimizzato.

Se posso dare un mio parere, la mia prima scelta sono gli eurobond; la seconda è l’abbandono dell’euro da parte della Germania. Entrambe le scelte sono infinitamente migliori del non fare una scelta e prolungare la crisi. La cosa peggiore fra tutte sarebbe che un Paese debitore, come l’Italia, abbandonasse l’euro perché questo porterebbe a una dissoluzione disordinata dell’Unione europea.

Ho fatto alcune asserzioni sorprendenti; in particolare, su come potrebbero funzionare bene gli eurobond anche senza la Germania. I miei colleghi pro-Europa non riescono proprio a crederci. Non possono immaginare un euro senza Germania. Penso che stiano confondendo l’euro con l’Unione europea. Le due cose non sono identiche. L’Unione europea è l’obiettivo e l’euro il mezzo per raggiungere tale scopo. Quindi non si può permettere all’euro di distruggere l’Unione europea.

Ma potrei essere troppo razionale nella mia analisi. L’Unione europea è confluita nell’euro non solo a parole ma anche a livello giuridico. Di conseguenza l’Unione europea potrebbe non sopravvivere se la Germania lasciasse l’euro. In questo caso dobbiamo fare tutti ciò che è in nostro potere per convincere il pubblico tedesco ad abbandonare parte dei suoi pregiudizi più radicati e delle false convinzioni e ad accettare gli eurobond.

Vorrei concludere enfatizzando quanto sia importante l’Unione europea non solo per l’Europa ma per il mondo intero. L’Ue doveva essere l’incarnazione dei principi di una società aperta. Ciò significa che una perfetta conoscenza è irraggiungibile. Nessuno è libero dai pregiudizi e dalle false convinzioni; nessun dovrebbe essere incolpato per aver commesso degli errori. La colpa o Schuld inizia solo quando un errore o un’idea sbagliata vengono identificati ma non corretti. È in questo modo che vengono traditi i principi su cui è stata creata l’Unione europea. È in questo spirito che la Germania dovrebbe accettare gli eurobond e salvare l’Unione europea.

  1. Ancora sui nuovi modi per la religione della libertà, di Giuseppe Brescia
    A proposito della lucida analisi svolta da George Soros ( “Avanti con gli Eurobond”, su “Reset” del 10 aprile 2013 ) ma anche del saggio di Luciano Pellicani sui limiti del neo-liberismo, sian consentite alcune considerazioni. Farei attenzione ad assumere il pensiero di Karl Raimund Popper, nostro indimenticato maestro e amico ( cfr. “Epistemologia ed ermeneutica nel pensiero di Karl Popper. Con il messaggio Coscienza dell’Occidente”, Fasano 1986; “Karl Popper e il pùngolo della libertà”, Ed. Salentina 1994 ), come una sorta di attaccapanni buono per ogni ventura ( magari anche quella ‘specultativa’ ). Ciò vale anche per Hayek, Berlin, Croce, Salvemini, Bobbio et alii, ovviamente. Presentemente ritengo sa recuperarsi il tenace dsiscorso crociano a proposito della “religione della libertà” ( “Storia d’Europa”; “Fede e programmi”; discussione in ‘Concordia discors’ con l’Einaudi; intervista a “New Republic” del ’37; carteggio con l’Einstein del ’44, e via ). Su questi momenti e temi esistono biblioteche di biblioteche. Né francherebbe la spesa di tornarci sopra, anche per evitare di cadere nell’aforisma di Carlo Emilio Gadda, tra l’altro a 40 anni dalla morte, per il quale il pappagallo registrava tutti i suoi versi e poi li raccolse formando le “opere complete del pappagallo” ( oggi diremmo: il proprio “profilo” ). E’ opportuno tornarvi su per segnalare un punto speciale. Come il sistema delle forme spirituali non si può certo dividere in “spicchi” o “compartimenti stagni”, agendo invece nel suo seno ( alle fonti del “trifoglio”, linfa vitale, o del “quadrifoglio” nello svolgimento circolare delle opere ) il principio dei “modi categoriali” memoria – sentimento – tempo ( trascrizione teoretica delle funzioni della “dialettica delle passioni”, presso alcuni prosecutori del Croce ), così sul terreno economico e politico bisognano nuovi modi e nuove regole a presidio della libertà ( Popper diceva che le “istituzioni sono buone, quando le guarnigioni sono buone” ). Ora, se ripensiamo “Welfare” e “liberismo” ( anche il Pellicani riconosce in un passaggio del suo denso articolo che esiste uno statalismo “bastardo”), riconosciamo che non si possono sopprimere i “passaggi” delle rispettive forme ( e degenerazioni ) dei contrapposti sistemi. E sono: per il sistema statalistico, liceità d’indebitamento; quindi, concezione della cosa pubblica come terreno di conquista; infine, perpetrazione di reati. Dall’altro canto, per sistema neo-liberistico: rischi di “deregulation” ( come alle origini della crisi finanziaria del 2007/2008, su cui s’intrattiene anche il Soros); quindi dittatura finanziaria ( forma di heideggeriana “Ge-stellung”, la cui fenomenologia attuale caratterizza in parte proprio la Germania ); infine, di nuovo, reati. Vorrei però ancora rilevare come il “passaggio” o “modo” che non si può elidere è il primo, dal momento che è proprio il ritenere lo Stato “papà Pantalone” e la cosa “pubblica” come cosa “di nessuno” che, ingenerando meccanica assuefazione, porta a ritenere escusabile se non esplicitamente legittima la prassi dell’indebitamento. E, d’altra parte, ritenere il “mercato” totale “assenza di regole” induce la pretesa di controllo finanziario europeo e mondiale; quindi, ancora, produzione di reati. La “terza via” va posta non rettoricamente, ma su precise basi teoretiche e conseguentemente pratiche. Gli “eurobond” discussi e propugnati nel dibattito etico-politico ne forniscono valido esempio. Ma per far passare tutto ciò, bisogna riscoprire la “dolcezza” nel “giudizio”, la “dolcezza” come “giudizio”, la kantiana “Urtheilskraft”, abbandonando il coltello perennemente fra i denti e la contrapposizione – essa sì manichea e “teologica” – tra i due sistemi di schieramento o di scuola. Senza dimenticare che va posto il problema dell’ Europa dei popoli ( non solo della Commissione europea e della Banca centrale ) e della equiparazione dei titoli di studio, di cui strananente nessuno parla o si occupa ( un medico laureatosi in Italia non vede riconosciuto il suo titolo in molti paesi europei ). Giuseppe Brescia

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