LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Zone di frontiera. Il Messico di Rodrigo Plà a Venezia

Il concorso di “Orizzonti” della 72. Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia si inaugura oggi con “Un monstruo de mil cabezas” (Un mostro con mille teste) del regista Rodrigo Plà, nato in Uruguay nel 1968 e cresciuto in Messico. Il film è sceneggiato con l’abituale co-autrice di Plà, la scrittrice Laura Santullo, ed è la storia delle disavventure di una donna per procurarsi i soldi necessari a curare il marito malato di cancro. Laddove il “mostro dalle mille teste” è l’indifferenza o il cinismo che la circondano. Dopo alcuni cortometraggi di valore, Plà si è rivelato al pubblico e alla critica internazionale con il lungometraggio d’esordio “La zona” del 2007 che a Venezia vinse il Leone del futuro e al Festival di Toronto il premio Fipresci. Proponiamo qui uno stralcio di un nostro breve saggio su “La zona” e il cinema messicano, “Zona di frontiera”, apparso nel volume “Identità e disgregazione. Frammenti del cinema contemporaneo” introdotto da Dario E. Viganò (Edizione Fondazione Ente dello Spettacolo, 2008). Il Messico è protagonista a Venezia 72 anche grazie al presidente della giuria internazionale Alfonso Cuaron, al film fuori concorso “La calle de la amargura” (La strada dello sconforto) di Arturo Ripstein che in Laguna festeggerà mezzo secolo di cinema, e al cortometraggio “En defensa propia” (In autodifesa) della ventiquattrenne Marianna Arriaga. Quest’ultimo titolo è basato su un racconto scritto dal padre Guillermo Arriaga, autore di fama internazionale ed ex sodale di Alejandro Gonzales Inarritu. Guglielmo Arriaga figura nel programma di quest’anno pure in qualità di co-produttore di “Desde Allà” (Da lontano) del venezuelano Lorenzo Vigas, in competizione. Il tema di “Zona di frontiera” non si è usurato negli ultimi anni, anzi, ed è tragicamente vivido nelle cronache di questa estate.

Dove passano le frontiere? Esse dividono o avvicinano? Oltre quali e quanti muri bisognerà spingersi per verificarlo? E a quale prezzo? L’enfasi sulla “fine della storia” frettolosamente decretata da Francis Fukujama e altri studiosi all’indomani della caduta del Muro di Berlino nell’89, ben presto non riesce a elaborare i vuoti e le rovine lasciati dal crollo della storica cortina fra due mondi nel mezzo dell’Europa, né a individuare i nuovi conflitti traumaticamente al culmine l’11 settembre 2001. Tanto meno questa libido d’archiviare la storia può esprimere qualcosa contro i fondamentalismi che alimentano detti conflitti in nome dell’islamismo radicale o di una aggressività occidentale che va ben oltre la “legittima difesa”, in Iraq, in Afghanistan e talora nel cuore stesso delle nostre città. Perché, alla radice, la questione attiene a quanto violenta possa essere la difesa e alla legittimità di tale violenza, nonché alla sua efficacia o inefficacia laddove essa si eserciti come se sul campo non vi fossero ragioni e torti pregressi, ovvero una storia e delle storie impossibili da rimuovere, a cominciare dalla divisione della società in classi, con un divario crescente fra chi è sempre più ricco e chi è sempre più povero. Così è nelle megalopoli dalle sterminate periferie che trovano un drammatico paradigma in Città del Messico.

Dichiara in proposito con estrema chiarezza Rodrigo Plà intervistato nel 2008 da Marco Spagnoli: “La zona è la storia di una rapina a mano armata e di una caccia all’uomo ma, prima di tutto, è la storia di una società spezzata, fatta di due mondi che si temono e si odiano a vicenda”. Sceneggiato dal quarantenne regista latinoamericano ancora una volta con la scrittrice Laura Santullo, il film racconta due giorni nella vita di Alejandro (Daniel Tovar), un adolescente più che benestante che gode dell’ambiguo “privilegio” di abitare nella cosiddetta ”zona”, un quartiere-bene nel quale vedremo esplicarsi il male in tutta la sua virulenta banalità. Una cittadella recintata da alte mura e difesa da guardie private nella sterminata capitale messicana: un tentativo – quanto illusorio – di lasciare o di scacciare extra moenia le contraddizioni lancinanti e la miseria e la fame di un mondo che invece presto farà breccia. Durante una notte di fulmini e pioggia, infatti, tre ragazzi delle favelas approfittano del crollo di un traliccio e del varco che questo provoca nelle mura della “zona” per introdurvisi e compiere un furto in una delle ville.

Sorpresi dalla proprietaria, due di loro la uccidono e, poco dopo, vengono uccisi dalle guardie, mentre per il superstite Miguel (Alan Chavez), coetaneo di Alejandro, comincia una fuga da incubo nel labirinto di giardini, interni, cunicoli, fogne della “zona”. Unica provvisoria tregua è per lui la cantina della famiglia dello stesso Alejandro nel giorno del suo compleanno: un rifugio sotterraneo per entrambi i ragazzi che lì si incontrano e si confrontano, vincendo le paure reciproche. Il ladruncolo riprende fiato, viene sfamato e si confessa innocente del delitto dinanzi alla telecamera dell’altro, il quale a sua volta – laggiù – si estranea dal conflitto fra i genitori, poiché il padre è un fanatico sostenitore della giustizia “fai da te” e la madre vorrebbe invece che del caso si occupasse la polizia.

Ecco uno egli elementi cruciali nella drammaturgia di Plà. La polizia c’è e il commissario che si spinge dentro le linde vie della “zona” non solo sospetta subito dei bravi borghesi che lo accolgono con diffidenza manifesta fino all’ostilità, ma, contraddicendo un ferreo stereotipo[1], non si lascia corrompere. Anzi, egli viene a capo in breve tempo del mistero sulla sorte dei due ragazzi assassinati e scaricati tra i rifiuti quando ne ritrova i corpi e scopre che uno ha ancora in bocca il prezioso anello sul quale sono incise le iniziali dell’anello sfilato con i denti dalla mano della signora uccisa in casa. Corpi nella spazzatura, ovvero corpi come spazzatura in un contesto impietoso. Pur di premunirsi contro gli estranei, i cittadini-modello della “zona” deliberano in assemblea di non rivelare alla polizia quanto accaduto durante la notte e che per errore è costato la vita anche a una delle guardie: un consesso che è il pallido fantasma, e nondimeno sanguinario, della democrazia attiva.

Gli stessi abitanti della “zona” sono adesso pronti a tutto: a isolare i rari oppositori e a sequestrarne/isolarne i telefoni per evitare che comunichino con l’esterno, a respingere e ostacolare le indagini, a mentire alla vedova della guardia uccisa per errore dicendole che si è trattato di un suicidio e restituendole il corpo soltanto dopo averla abbindolata con le menzogne. E molti di loro – inclusi gli amici di Alejandro aizzati e armati dai genitori – sono ovviamente in prima linea nella caccia all’uomo senza posa per catturare Miguel.

Oltre le mura, dolente e interrogativa come una pasoliniana Mamma Mexico, c’è appunto la madre di Miguel, che aspetta le vengano date notizie del ragazzo: blocca ogni auto che entra o esce dalla “zona”, incluse quelle della polizia, e non si muoverà di lì fino al compimento della tragedia.

L’epilogo è segnato. Vista l’impossibilità di corrompere il commissario che è prossimo a sbrogliare il caso, i maggiorenti della “zona” si rivolgono a un alto magistrato che mette la parola fine alle indagini e salendo sull’automobile del volenteroso poliziotto che tanto s’era impegnato per ritrovare Miguel, lo invita a lasciare il teatro degli scontri. Ma Miguel è lì. Insegue l’automobile, implora di essere aiutato, urla di essere in pericolo di vita. Inutilmente. L’automobile prosegue la sua corsa verso l’uscita dalla cittadella, dove la mamma della vittima predestinata apostrofa il commissario: “Quanto ti hanno dato per la vita di mio figlio?”. Lui la picchia e la lascia sul ciglio della strada, mentre con amarissima ironia Plà mette in bocca al giudice l’invito a controllarsi per evitare che si parli male della polizia.

Un attimo dopo tutta la “zona”, i cani della muta cattiva, è addosso a Miguel: lo catturano, lo insultano, lo picchiano, lo uccidono. Alejandro assiste impotente alla scena, come sua madre. Non gli resterà che sottrarre il corpo del coetaneo alla discarica, caricarlo sul Suv materno e condurlo clandestinamente oltre le mura della “zona” e poi oltre, verso un cimitero di periferia dove paga un necroforo affinché gli dia sepoltura ancorché senza altro nome che quel laconico e anonimo “Miguel”. Un viaggio che per Alejandro equivale già a mettersi “fuori legge” rispetto al codice implicito e ormai palese del suo ambiente: non ha l’età per guidare, né l’esperienza per avventurarsi in lande sterminate di una metropoli senza confini (annotta e albeggia) punteggiata di miserie. Dopo aver assolto alla sua pietosa missione, si ferma in un chiosco lungo una strada di polvere. C’è un telefono pubblico (da quanto tempo al cinema qualcuno non chiama da un telefono pubblico?). Alza la cornetta e compone il numero tatuato sul braccio di Miguel da una amica che era con lui nella notte del temporale e che l’aveva cercato all’indomani, mettendo in moto le indagini. Una ragazzina dal volto tumefatto per le botte ricevute nella stazione di polizia dove, incautamente, s’era fidata del commissario poi costretto ad abdicare alle indagini. Alejandro chiede se all’altro capo del filo qualcuno conosca Miguel. Un clic e la comunicazione s’interrompe. Lui ricompone il numero e alla risposta dice solo “Miguel è morto” e chiude.

Nella luce tendente a un grigio quasi lunare (la fotografia è di Emiliano Villanueva) e con movimenti di macchina fluidi e un respiro tradizionale nel montaggio, La zona riesce a tenere sempre abbastanza alta la tensione, ma soprattutto a far riflettere anche lo spettatore lontano in virtù di un spettro che rischia di prendere corpo in Europa, per esempio nell’Italia delle ronde anti-clandestini e dei roghi degli accampamenti rom. Gli echi vaghi di Ballard, del Signore delle mosche di Golding rivendicato da Plà o di certo Orwell nella costante ricognizione del territorio attraverso una miriade di monitor, conferiscono al film uno statuto letterario, o per meglio dire umanistico, che paradossalmente ne stempera l’originalità, lo rende di maniera. Insomma, Plà non è maturo per esplorare un micromondo concentrazionario, ancorché di una concentrazione volontaria, con le qualità che furono del Bunuel messicano dell’Angelo sterminatore (1962) dove il muro che iscrive le perversioni borghesi è invisibile, o del Kieslowski cui pure il giovane autore ammicca nel dilemmatico personaggio di Alejandro, depositario della residua speranza etica in cotanta cupezza.

Ma La zona resta un efficace thriller sociologico, avvincente nel ribadire sullo schermo la fine di un’illusione: il Naufragio con spettatore esplorato e negato nell’omonimo saggio di Hans Blumenberg[2]. Il filosofo tedesco, rivisitando un’immagine del De rerum natura di Lucrezio – guardare da terra il naufragio lontano, rallegrandosi della distanza da una simile sorte – ne argomenta la fallacia. Difatti ormai la sorte di chi è in pericolo investe chi sta a riva: il naufrago e lo spettatore non possono più dirsi estranei fra loro, e la rovina o la salvezza dell’uno comporterà dei costi per l’altro. Non ci sono mura alte a sufficienza per separare nettamente la morte di Miguel dalla vita di Alejandro. Non c’è una zona franca della morale.

[1] Sulla corruzione poliziesca in Messico, oltre naturalmente a “Traffic” (2000) di Steven Soderbergh, fa testo,  “Man on Fire – Il fuoco della vendetta” di Tony Scott (2004), ambientato in una Città del Messico terrorizzata dai sequestri di persona, rispetto ai quali le forze dell’ordine sono conniventi o impotenti, dove una ricca famiglia assolda l’ex agente speciale Denzel Washington nel tentativo – vano – di proteggere la figlioletta. Nel ruolo dello sbirro internazionale figura un Giancarlo Giannini tanto bravo quanto spaesato.

[2] Hans Blumenberg, “Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza”, Il Mulino, Bologna 1985.

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