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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Un’altra idea del postsecolare: missione impossibile?

Libri.

Il libro di Marco Marzano e Nadia Urbinati, Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica (Mulino 2013), è una sinfonia in due tempi. Il capitolo di Marco Marzano disegna l’articolato panorama del cattolicesimo italiano, di cui l’autore è uno dei maggiori studiosi in campo sociologico, mostrando come le trasformazioni che lo hanno investito e che ancora oggi sono in atto rendano implausibile il successo del progetto culturale del cardinale Ruini di fare del cattolicesimo il collante di un paese in cerca, dopo il crollo della prima Repubblica, di identità e nuovi equilibri, a fronte delle sfide provenienti da altre culture e civiltà con forza identitaria ben più marcata (islam in primis). Il capitolo di Nadia Urbinati discute invece dal punto di vista filosofico-politico il concetto e la pratica della laicità, mostrandone la natura sensibile ai contesti culturali, religiosi e politici specifici, e muove una serrata critica – come del resto fa anche Marzano – all’approccio postsecolare, nella versione habermasiana e nella ricezione italiana, mostrandone le conseguenze – in un contesto come quello italiano – indesiderate. Comune ai due autori è proprio la critica al postsecolare, accusato di legittimare dal punto di vista teorico il monopolio cattolico del campo religioso e culturale in Italia, e di restringere così facendo gli spazi del pluralismo. D’altro canto, è proprio il capitolo di Marzano a mostrare come sia sociologicamente ingenuo pensare a un siffatto monopolio, dato il carattere frammentato, particolaristico e ‘terapeuticizzato’ del cattolicesimo nostrano, poco compatibile con l’intento ruiniano di farne una religione civile pilotata dalla CEI ma condivisa al tempo stesso dal paese reale. Più che di una contraddizione interna alla tesi degli autori, si tratta di una articolazione dell’argomento che rafforza la critica al postsecolare e che intende al contempo dare ulteriore nerbo alla visione di fondo che il libro avanza: il postsecolare in Italia rischia di offrire strumenti teorici ad un progetto tutto politico di riaffermazione egemonica del cattolicesimo inteso come instrumentum regni, in un quadro in cui viceversa secolarizzazione, sfide pluraliste e trasformazioni interne possono metterne nell’angolo le pretese egemoniche e politiche. Lunghe parti, larghi tratti di analisi di entrambi i capitoli di questa sinfonia in due tempi mi risultano condivisibili oltre che di piacevole e stimolante lettura. Eppure, nell’insieme, c’è più di qualcosa che suona stonato, e che mi induce a non concordare con la tesi di fondo espressa nel libro. Data la natura di questo spazio, cercherò di essere sintetico.

Nadia Urbinati ripercorre la nota vicenda delle diverse sentenze in merito alla presenza del crocefisso nelle scuole italiane, da quella della Corte di Cassazione nel 2000 fino a quella del 2011 emessa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, passando per il pronunciamento del TAR del Veneto nel 2005 e la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2009. Quel che questa vicenda (che qui non posso certo riassumere) insegna sarebbero “le aberrazioni che il postsecolare può generare, prime fra tutte la rinascita di un modello dei rapporti tra politica e religione che privilegia il consenso al diritto e ci riporta indietro di secoli, verso il modello ‘uno stato, una fede’” (p. 65). L’analisi ravvicinata del pensiero di Habermas, oltre che di Rawls, dovrebbe servire a mostrare al lettore come simili conseguenze aberranti derivino direttamente dagli assunti di fondo della concezione habermasiana del postsecolare, entusiasticamente fatta propria in Italia dalle gerarchie cattoliche in quanto consentirebbe una ri-legittimazione della religione nella sfera pubblica, e in un contesto monoreligioso quale l’Italia, aumenterebbe di molto la possibilità che i suoi principi e valori (more gerarchie interpretati) entrino nel processo politico di produzione di diritto positivo. Insomma, Habermas avrebbe servito al progetto culturale ruiniano su un piatto d’argento la possibilità di rientrare in gioco proprio quando la secolarizzazione minacciava più da vicino lo stesso cattolicesimo. E tanto basta, per Nadia Urbinati, per rigettare il postsecolare, almeno quando riferito ad un contesto monoreligioso come quello italiano.

Ma qui c’è un primo problema. Nell’assumere l’Italia come un paese monoreligioso, la Urbinati deve mettere da parte proprio quel quadro sociologico che le pagine di Marzano dipingono nel capitolo precedente, per concentrarsi su la ‘prima chiesa’, quella che “si nutre di visibilità mediatica e del rapporto stretto con il potere politico” (p. 63), lasciando ai margini la ‘seconda chiesa’, quella che vive delle fede individuale e comunitaria di quanti nella prima ormai non si riconoscono neanche più (il libro non sembra tenere molto conto del possibile impatto sulla discussione dello ‘stile’ e dell’azione di papa Francesco). Mi sembra una mossa discutibile, che cade vittima dell’ossessione di Ruini, fino a far coincidere il postsecolare con Ruini stesso, il cattolicesimo con il Vaticano, la religione con il cattolicesimo della CEI di Ruini e l’Italia con il centro del mondo. Un po’ troppo temo. È proprio il capitolo di Marzano a mostrarci che perfino in Italia il panorama è più mosso di quanto la rappresentazione della prima chiesa voglia far credere, o di quanto certe ossessioni laiche ritengano.

Non senza ambiguità tuttavia. Sì perché anche il capitolo di Marco Marzano non è privo di mosse concettuali discutibili. Marzano ci mostra ‘i numeri’, che in forma aggregata dicono che in Italia circa il 6% della popolazione “professa oggi una religione diversa da quella cattolica” (p. 26). Musulmani, cristiani ortodossi, protestanti ‘storici’, evangelici, Testimoni di Geova, induisti, sik, mormoni, ebrei, buddisti, fino alla galassia New Age e altri nuovi movimenti religiosi. Lo stesso Marzano definisce quel che avviene un “cambiamento impressionante”, che rimane spesso “invisibile o comunque poco analizzato” (p. 27), si direbbe per responsabilità dei media, della classe dirigente del paese, per una volta forse non delle scienze sociali. Accanto a questo cambiamento impressionante c’è quello interno al cattolicesimo, cui Marzano dedica la gran parte delle sue riflessioni. Un cambiamento che va in direzione, sostiene l’autore, di una progressiva frammentazione del panorama cattolico, di una crescente individualizzazione del credere e un “distaccarsi degli italiani dalla tradizione e dalla dottrina cattolica” (p. 27). La religiosità che emerge nei nuovi movimenti religiosi cattolici è sempre meno conformista e sempre più centrata sull’adesione sincera; una fede antiteologica, antintellettualistica, fortemente espressivista ed emotiva (p. 38), connotata al fondo da uno spiritualismo che se non dissolve del tutto la dimensione comunitaria comunque la spezzetta e localizza. Se dunque l’analisi sociologica parla di un paese dal marcato pluralismo intra-cattolico e da un crescente pluralismo extra-cattolico, perché cadere vittime delle stesse bolle mediatiche che si criticano e inintenzionalmente contribuire a quelle operazioni politiche che sovra-rappresentano l’immagine di un paese monoreligioso? In realtà, credo che i problemi siano più radicali di così. Si può concordare pienamente con la lettura che Nadia Urbinati offre della vicenda delle sentenze sul crocefisso nelle scuole italiane, eppure non concordare con la sua tesi di fondo. Lo stesso dicasi con riferimento al capitolo di Marzano: si può convenire con larga parte della sua ricostruzione del panorama religioso italiano, eppure alla fine dissentire sulla sua interpretazione del carattere necessario (così sembra di capire) del nesso tra postsecolare e progetto culturale di Ruini. Se questo accade è perché i dissensi sono teorici e di fondo, e pregiudicano il nucleo del giudizio che esprimiamo intorno al rapporto religioni politica e società in Italia (e altrove) oggi, non la periferia. Credo ci siano tre aspetti sui quali dissento con Nadia e Marco: l’idea di postsecolare, l’idea di religione e l’idea dei rapporti tra religioni, società e politica.

Nessuna interpretazione del postsecolare che voglia essere presa sul serio può prescindere da un confronto con Habermas. Tuttavia, la letteratura sul postseclare è ormai vasta e articolata, ha declinazioni politiche, teologiche, sociologiche, estetologiche. L’autorità indubbia del pensiero habermasiano non dovrebbe però tradursi in conformismo degli interpreti, nell’assunzione cioè della versione habermasiana del postsecolare come unica in campo. Con un piede dentro e un piede fuori la concezione habermasiana, si potrebbe agevolmente mostrare ad esempio come Marzano e Urbinati incorrano in almeno due fatali errori nella loro valutazione del postsecolare: il postsecolare non ha nulla a che fare con l’idea secondo cui la secolarizzazione sarebbe finita, idea erroneamente attribuita ai postsecolari (p. 26), né può prescindere dal fatto del pluralismo, dal pluralismo di concezioni secolari e religiose della vita e del mondo, da un lato, e da quello interno alle concezioni religiose stesse, dall’altro. È a partire (tra gli altri) da questi due presupposti – coesistenza di forme di vita religiose e secolari entro uno stesso campo sociale e per lo più (su scala geopolitica) entro cornici istituzionali secolari, e fine dei monopoli religiosi – che si dà la discussione sul postsecolare, tanto sul piano sociologico quanto su quello normativo. È a partire da questi presupposti che si può discutere anche del postsecolare inteso quale forma di ‘apprendimento complementare’ tra fede e ragione, la versione specificamente habermasiana, che invece i due autori non chiamano mai in causa.

L’idea di religione non è mai esplicitata, forse per non incorrere in rischi essenzializzanti, ma a costo di fraintendimenti rischiosi. Nel leggere le pagine di Nadia Urbinati, ad esempio, non si può non essere presi dal dubbio che al fondo dell’ossessione per la ‘prima chiesa’ vi sia una certo pregiudiziale timore per quel che la religione in sé sempre rischia di rappresentare. Nel citare James Madison, ‘eroe’ del paradigma politico prediletto dall’autrice, Urbinati ricorda come quest’ultimo spiegasse “le potenzialità illiberali e bellicose delle religioni risalendo alla natura della passione religiosa, capace di predisporre gli animi all’intolleranza perché desiderosa di modellare le società secondo i suoi princìpi, difficilmente negoziabili o aperti al mutamento” (pp. 74-75). Potenzialità dunque, certo, ma che rimandano alla natura intollerante della passione religiosa; qualche pagina dopo, la religione appare un fattore inquinante la vita sociale e politica, tanto che discutendo la concezione habermasiana delle chiuse idrauliche si dice che certamente ‘ci deve essere un momento in cui le paratie sono abbassate e la corrente viene interrotta se non si vuole che tutta l’acqua venga inquinata da quelle sostanze che non sono dannose alla salute fino a quando circolano liberamente nell’acqua e non sono assorbite dall’organismo” (p. 111). Quest’ultima immagine, in realtà, dice qualcosa di più, e cioè che l’intero argomentare dei due autori è come marcato da una non esplicitata concezione della religione che Adam Seligman chiamerebbe post-protestante, ossia totalmente modellata sulla concezione protestante del Self, e poi anche dello spazio pubblico e politico. Qualcosa di simile a quella che Marzano dice, con riferimento alle trasformazioni del cattolicesimo italiano, essere la tensione verso la ‘religione pura’ di cui parla Olivier Roy. Una concezione molto discutibile, sia sociologicamente (la religione come pura spiritualità è, tanto più alle orecchie di un durkheimiano, un ossimoro bello e buono) che normativamente, per il suo carattere assolutamente particolarista.

Da ultimo, il dissenso credo che investirebbe anche il nodo, normativo e sociologico, dei rapporti tra religioni, politica e società. La critica di Urbinati e Marzano al modello postsecolare di Habermas – che mi pare non del tutto correttamente interpretato e comunque non l’unico possibile –, equiparato a quello del ‘cardinale postsecolare’ Ruini (p. 17) – per eccesso di ossessione da centralità vaticana – si muove fondamentalmente all’interno dello stesso perimetro categoriale habermasiano, ossia un paradigma monista in cui l’unica fonte legittima di produzione del diritto è lo Stato, con la politica chiamata a normare un sociale altrimenti intrinsecamente anomico. Sarebbero disposti i nostri due autori a mettere questo paradigma in discussione e a pensare ad un riequilibrio tra sociale e politico post-novecentesco, insieme ad una concezione post-post-protestante delle religioni? In un orizzonte religiosamente pluralista quale l’Italia va diventando e in cui la pluralizzazione di fatto andrebbe accompagnata da buone leggi (vedi quella sulla libertà religiosa che ancora aspettiamo), l’orizzonte teorico dei nostri due autori sarebbe capace di accogliere l’idea di un pluralismo pubblico delle religioni, di un pluralismo che ridefinisce la nostra stessa idea di pubblico de-statalizzandola? I tre punti di dissenso teorico sopra accennati mi inducono a dubitarne. Sono certo tuttavia che il bel libro degli amici Marzano e Urbinati segnerà un passaggio importante nel già vivo dibattito su religioni, cattolicesimo e politica in Italia, nonché uno stimolo ulteriore per la riflessione teorica più generale.

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