LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Umano, troppo umano. Note su “Blade Runner 2049”

Non è il semplice seguito di Blade Runner di Ridley Scott (1982), che, quasi involontariamente, «modificò» la nostra idea di futuro, gravandola di fosche passioni e di crimini lungo la frontiera tra l’umano e l’artificiale, in una scenografia metropolitana in anticipo sui tempi (difatti gli urbanisti non smettono di studiarla). Anzi, non è semplice tout court questo Blade Runner 2049  del cinquantenne canadese Dennis Villeneuve (Sicario e Arrival i suoi ultimi titoli), da qualche giorno sugli schermi italiani. Dura un botto e bisogna ritagliarsi tre ore e passa per andare al cinema con annessi e connessi, il che è quasi un sacrificio o un voto nella trama quotidiana di oggi. Tuttavia consigliamo di trovare il modo di lasciarsi ipnotizzare e cullare nel labirinto narrativo e visionario del film, ricco di spunti filosofici o psicoanalitici – alla maniera primordiale di Hollywood, s’intende. E vai con gli archetipi, le cromie oniriche, i sensuali ologrammi che prendono corpo o lo… perdono come la magnifica Ana de Armas (vedrete), e i paesaggi desertici che sembrano discariche dell’immaginario collettivo tra Metropolis, un De Palma su Marte e il Carpenter di 1997 – Fuga da New York.
La storia in sostanza aggiorna la caccia ai replicanti, in particolare agli esemplari ribelli delle generazioni precedenti (Nexus), che il diabolico magnate cieco Wallace (Jared Leto) vuole sostituire con «macchine» più efficienti. Il protagonista del film è l’agente K della Polizia di Los Angeles (Ryan Gosling), un guerriero robotico la cui volontà s’incrina quando scopre un segreto del passato, un cavalluccio di legno con una data di nascita incisa sul fondo. È la sua? Il piccolo totem dell’infanzia innesca un viaggio nel tempo alla ricerca della memoria perduta, ovvero mai avuta, perché i ricordi del Nostro potrebbero essere fallaci, indotti, «innestati» ad arte per costituire lo status quasi «umano» dell’androide evoluto.
Certo è che l’agente K si avventura fin dove nessuno si era mai spinto («Ho visto cose che voi umani…»), convincendosi di essere stato «generato, non creato» al pari di una «gemella» con il medesimo DNA. La sua «coscienza» e le sue debolezze lo accomunano alle prede e ne fanno presto un bersaglio mobile nella piovosissima Città degli Angeli e oltre, fino a una Las Vegas che è il simulacro di una civiltà in rovina, vestigio e paradigma di un’epoca feconda di miti (Elvis, Monroe, Sinatra «aleggiano» a intermittenza nei grandi ambienti di un casinò), ma anche di vita reale.
Colà l’agente K incontra Rick Deckard (Harrison Ford), il suo progenitore cinematografico, e, chissà, genitore vero e proprio insieme a «mamma Rachel» (Sean Young), che era l’enigmatica, struggente e bellissima replicante del film di Scott, il quale stavolta figura quale produttore esecutivo. Grazie a Ford, invecchiato disincantato braccato e pugnace controvoglia, Blade Runner 2049 riserva una trentina di minuti finali da antologia hard boiled. Eccolo, il Marlowe distopico che versa whisky sul pavimento per il suo cagnaccio… «È vero?», chiede K riferendosi alla bestia. «Chiediglielo!», la sublime risposta.
Blade-Runner-2049-600x400Altro non vorremmo svelare, se non che il sodalizio virile tra i due «cacciatori di androidi» li condurrà allo scontro ultimo (ma chi può dire se davvero «ultimo») in una vertigine di rimembranze e di sentimenti umani, troppo umani. Costretti a combattere e inevitabilmente a perdere in nome di un albero, di un pezzo di legno, dell’infanzia sfruttata o quanto meno fagocitata come tutto il resto dalla virtualità di smartphone e playstation.
Così l’«inattuale» o l’«uomo postumo» di cui scrisse Nietzsche lampeggiano sullo schermo. Il primo Blade Runner era fantascienza, questo 2049 è infine quasi «realistico» nella sua inquietante ricerca di qualcosa e di qualcuno da toccare con mano, da ricordare, da amare.
BLADE RUNNER 2049 di Denis Villeneuve. Interpreti e personaggi principali: Ryan Gosling (Agente K), Harrison Ford (Rick Deckard), Ana de Armas (Joi), Sylvia Hoeks (Luv), Robin Wright («Madame»), Jared Leto (Niander Wallace), Mackenzie Davis (Mariette), Carla Juri (dottoressa Ana Stelline), Sean Young (Rachel). Drammatico-fantascienza, ispirato al romanzo «Il cacciatore di androidi» di Philip K. Dick, USA, 2017. Durata: 153 minuti
Articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 12 ottobre 2017  

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