MEDIAPOL

Alberto Ferrigolo

Giornalista

Tv alla greca

C’era un gran chiacchiericcio, ieri mattina – mercoledì 12 giugno – tra i corridoi della radio e della tv pubblica, ovvero tra viale Mazzini, via Asiago 10, via Teulada, Saxa Rubra e i vari appartamenti sparsi un po’ ovunque per la città che accolgono le redazioni e le produzioni dei diversi programmi.  La notizia della chiusura della Tv pubblica greca, la Ert, con la sospensione dei contratti per 2.700 dipendenti, è piombata come una bomba nella sonnacchiosa radio-tv di Stato italiana, reduce per altro dal recente prepensionamento di una prima tranche di 500 dipendenti. Le analogie tra le due aziende però ci sono tutte.

Certo quello della Ert è un caso estremo, ma la matrice è la stessa della Rai: clientelismo e protezionismo dei partiti, che hanno fatto lievitare a dismisura il numero dei dipendenti (e delle reti) e, dunque, anche i relativi costi, spese e quant’altro. E anche il filone tematico è identico: la necessità di dimagrire, ridurre i costi e le uscite, anche a fronte di un calo notevole degli introiti pubblicitari dovuti alla crisi economica in corso da tempo, il bisogno di smaltire eccessi ed eccedenze, la questione della privatizzazione di uno o più canali, eccetera, eccetera. Chissà, forse Grillo avrà guardato con favore e come fonte di ispirazione alla notizia greca, ma c’è da dire che nonostante il livello di degrado a cui è arrivata la nostra massima istituzione mediatica – e che Grillo ci ricorda un giorno sì e l’altro pure – c’è da dire, appunto, che la Rai è una realtà talmente grossa e al tempo stesso troppo importante, specie nella realtà europea ed internazionale, da non potersi permettere una “fine greca”.

È sì un “carrozzone”, ma lo è soprattutto se osservata con lo sguardo tutto interno al “caso italiano” e percepita in questo modo lo è soprattutto al proprio interno, tra i suoi addetti – dal primo dirigente all’uscere, ma internazionalmente viene invece vissuta altrimenti e cioè come una realtà poco al di sotto del livello Bbc inglese. Se non altro per importanza, valore, peso, mezzi, tecnologie. Certo, e anche se tra i dipendenti da tempo corre il brivido e anche un po’ la consapevolezza che «con questo andazzo prima o poi ci buttano fuori tutti», è davvero un caso astratto che una struttura di questo tipo e di un Paese come l’Italia, che ad ogni modo scricchiola, possa decidere di buttare a mare il futuro del proprio servizio pubblico.

Anche se il caso del gigantismo della Rai, che è più causa di paralisi che di forza organizzativa, va sicuramente affrontato. Del resto, è un tema che si sta ponendo – purtroppo e con i drammatici dimagrimenti occupazionali che conosciamo – in tutte le aziende, a fronte di un calo vistoso della pubblicità: dalla Rcs (effetti del “caso Recoletos” a parte) alla Mondadori al Gruppo Espresso alle testate minori fino alle altre due aziende emittenti, Mediaset e La7.

È proprio di ieri la notizia resa ufficiale e nota dal sito Dagospia, ma che già circolava da alcune settimane, che La7 è nel pieno di una drastica revisione dei conti e dei propri assetti. L’arrivo di Urbano Cairo ai vertici dell’azienda radiotelevisiva, che è stata di Telecon fino al mese scorso, ha avuto come primo effetto l’analisi e il blocco immediato dei conti, il cui primo risultato è stata la paralisi di tutti i pagamenti, degli stipendi e dei fornitori. Con una “proposta” di taglio dei compensi agli uni e agli altri (e per i secondi di una forfettizzazione dei crediti), la revisione del numero dei collaboratori, una proposta di taglio dei compensi alle star – da Santoro a Formigli passando per Lilli Gruber – pari al 30 per cento, con la chiusura di due sedi produttive, via Angelo Emo a Roma (proprietà Telecom) e il riaccorpamento degli uffici a via della Pineta Sacchetti, e di via Magolfa a Milano.

Ad ogni modo, se non è come la Grecia poco ci manca.

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