THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Tempeste d’acqua e cambiamento climatico

Le tempeste d’acqua alternate a momenti di grande caldo sono, ormai, diventate il tormentone di quest’estate. E dopo anni di silenzio, sono tornate di moda le previsioni che, qualche tempo fa, circolavano sul cambiamento climatico come la più probabile delle catastrofi che la civiltà umana starebbe preparando a se stessa.

Ma cosa c’è di vero nella storia del riscaldamento globale? Quali sono le conseguenze per l’Italia, il Mediterraneo e l’Europa nei prossimi anni? È vero che le questioni ambientali e le emergenze economiche ci costringono ad una scelta? O è vero invece che è proprio adattandoci alla mutazione che possiamo ricominciare a crescere in maniera sostenibile? E cosa ci dice la vicenda del cambiamento climatico sulla capacità di una società complessa di concepire una strategia su questioni che hanno a che fare con spostamenti di risorse tra generazioni e regioni del mondo diverse?

Fu il New York Times, nel Dicembre del 2009, a decretare l’inizio della fine del cambiamento del clima come grande fenomeno mediatico. “Perché fa così freddo se tutti parlano di cambiamento climatico?”: fu così che aprì la sua prima pagina il quotidiano americano che commentava quel giorno uno dei nulla di fatto più clamorosi della storia della diplomazia. I capi di Stato di tutti i Paesi del mondo erano volati a Copenaghen per partecipare ad una conferenza della Nazioni Unite sul clima che si chiudeva senza alcun accordo. Nonostante l’enorme emissione di anidride carbonica rilasciata da migliaia di aerei che avevano portato all’incontro le delegazioni e nonostante le tempeste di neve che avevano bloccato negli alberghi i partecipanti ad un incontro convocato per evitare un disastroso innalzamento delle temperature.

In effetti, le previsioni degli scienziati che studiano per le Nazioni Unite i dati del clima non sono cambiate e non possono essere natali freddi come quello di Copenaghen nel 2009 o estati tropicali come quelle italiane nel 2014 a modificarne la sostanza: esiste una tendenza alla crescita della temperatura media della Terra che è creata dall’azione dell’uomo; tale aumento delle temperature produce non solo lo scongelamento dei ghiacciai e un innalzamento del livello dei mari che potrebbe mandare sott’acqua New York, Londra e Roma in pochi decenni; ma, soprattutto, una traslazione di aree climatiche tra zone diverse del mondo che porterà più bagnanti sul Mare del Nord, ma anche siccità nel Sud del mondo, un allargamento delle diseguaglianze, nuove ondate di povertà e migrazione.

Cosa ha sbagliato, allora, il mondo e l’Europa nella prima stagione del cambiamento climatico quella finita poco prima del Natale di cinque anni fa?

Non pochi sono stati gli scettici che hanno messo in dubbio la scientificità delle analisi del gruppo di lavoro costituito dalla Nazioni Unite per studiare il cambiamento climatico (IPCC). Ma di più ha pesato l’impotenza degli Stati che, per anni, hanno cercato di raggiungere un accordo su base planetaria senza mai sciogliere i nodi delle ragioni contrapposte: tra chi – i Paesi in via di sviluppo – chiede che a pagare il conto dell’adattamento al clima sia chi storicamente ha prodotto il problema; e chi – tra quelli sviluppati – vuole prevenire l’aumento ulteriore di emissioni che viene quasi tutto dall’Asia.

Il fallimento dei vertici sul clima rimane però la più nitida dimostrazione dell’incapacità del mondo di far corrispondere alla globalizzazione delle economie, una risposta politica altrettanto globale. Un fallimento spiegato da un paio di premesse sbagliate da un punto di vista cognitivo: e cioè la pretesa di voler risolvere i problemi attraverso la trattativa anche quando si tratta di non far affondare una barca sulla quale siamo tutti seduti; nonché quella di aver capito – male – che l’adattamento alla trasformazione sia un costo da distribuire, laddove può essere un’opportunità economica grande quanto può esserlo stata la “ricostruzione” delle nostre città in altri tempi. In questo caso prima che scoppi una guerra.

A questo proposito una proposta molto interessante per superare l’impasse, è stata pubblicata qualche settimana fa sul numero di Nature di Luglio: un docente della Bicocca di Milano, Marco Grasso, e il suo collega americano, Roberts, propongono di modificare l’intero approccio al negoziato sulle riduzioni di gas serra che ciascun governo deve garantire, partendo dal calcolo delle tonnellate prodotte a quelle consumate per Paese. La proposta avrebbe senz’altro l’effetto di spostare ulteriormente sull’Europa rispetto agli Stati Uniti e alla Cina l’iniziativa dell’adattamento e di rendere più facile superare le resistenze delle due superpotenze. Ma ancora più significativo sarebbe l’effetto in termini di riallocazione delle politiche ambientali da un terreno tradizionale nel quale i protagonisti sono le grandi fabbriche che producono ricchezza e gli Stati che ne regolano le attività, ad uno più moderno nel quale la responsabilità del cambiamento passa a chi vi è direttamente interessato: le famiglie che consumano e le comunità locali che ne possono condizionare i comportamenti attraverso le politiche sui rifiuti, sulla mobilità, sugli edifici.  In fin dei conti, l’idea è quella della disintermediazione di organizzazioni – gli Stati, appunto – che non sono più semplicemente capaci di governare una globalizzazione che li sta svuotando.

Qualche scivolone metodologico, tanti errori politici, ma il problema principale del cambiamento climatico nella stagione del tanto clamore per nulla fu di comunicazione: quello di aver usato – lo fece Al Gore con efficacia – la clava della meteorologia che è, di certo, uno degli argomenti che più interessano le persone a tutte le latitudini; per essere poi esposti all’effetto boomerang che regolarmente colpisce i previsori del tempo quando certe previsioni non si verificano con l’esattezza a cui sono abituati i consumatori di televisione e di fine settimana sotto l’ombrellone.

Non è la prima volta nella storia dell’uomo che dura da mezzo milione di anni che il clima cambia profondamente. Ma ciò che è davvero nuovo in questa sfida è che tale mutazione avviene nel giro di pochi decenni e si abbatte su una società che è – nonostante e forse proprio a causa del suo progresso tecnologico – più vulnerabile di quanto l’umanità non lo sia mai stata prima. Vulnerabile, soprattutto perché sembra aver smarrito la capacità – intellettuale ed etica – di astrarre. Anche solo di concepire questioni che richiedono trasferimenti di risorse intellettuali e finanziarie tra luoghi (regioni del mondo) e tempi (generazioni) diversi.

Il cambiamento climatico esiste, dunque. E i disastri che in questi giorni si stanno abbattendo ovunque, dalla provincia di Treviso al confine tra Nepal e Tibet, lo stanno riavvicinando alla coscienza delle persone. È un terreno questo sul quale l’Italia può e deve trovare – anche nei prossimi mesi di presidenza dell’Unione – la leadership che cerca. Perché è un Paese che nel clima, nonché nel turismo e nel cibo che vi sono direttamente associati, trova uno dei suoi pochi vantaggi competitivi; perché da un deterioramento del clima altrui ed, in particolar modo di quello dei Paesi del Nord Africa, rischia di vedersi piovere addosso ulteriori bombe migratorie; ed, infine, perché l’Italia che inventò i comuni e l’umanesimo, e che mai riuscì ad essere davvero Stato nazione, può dare un contributo decisivo per governare una questione che richiede logiche completamente nuove.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Gazzettino del 4 Agosto

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