LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Sinistra, postsecolare

Parole.

In tempi di populismi montanti e di anestetizzanti supplenze tecnocratiche, richiamare l’immagine della politica, e di quella di sinistra in particolare, come ‘Grande Marcia’, può sembrare al meglio puerile, e al peggio irresponsabile. Eppure, tanto più in tempi di populismi montanti e di anestetizzanti supplenze tecnocratiche, senza tornare a pensare la politica – a sinistra – come marcia collettiva, si condanna la politica – di sinistra – a morte certa. Se non Kundera, almeno Walzer sì: la politica, a sinistra, non può che essere esodo e liberazione, uscita dall’“Egitto” e senso di un’impresa collettiva, capace di trasformare schiavi soli e tribù disperse in progetti di liberazione collettiva.

Pensare la politica a sinistra, sempre e ancora, come esodo e liberazione, significa tra l’altro evocare un immaginario religioso, nello specifico biblico. Nulla di strano, e tanto meno scandaloso, per chi è abituato a rivendicazioni di diritti e di giustizia in cui echeggiano i toni profetici di un Martin Luther King o di un Cornel West. Ma Martin Luther King e Cornel West non appartengono alla storia della cultura politica della sinistra italiana. La sinistra italiana è stata catto-comunista, raramente ha avuto la sensibilità complessa e sfumata nei riguardi della religione propria del suo grande padre Antonio Gramsci, e spesso è stata, come si dice con vocabolario corrente, laicista.

Sarebbe tempo che la sinistra in Italia imparasse a farsi postsecolare. Non si tratta di inciuci o sporchi compromessi tra correnti laiche e cattoliche dentro un qualche partito, ma di recuperare  o creare ex novo, anche in discontinuità con il passato,  senso e vision dell’azione collettiva. In primo luogo, tornare a pensare che fare politica significa marciare insieme ad altri, come gruppi e non come individui atomizzati, mano nella mano, fuori dall’“Egitto”, con la speranza e la fiducia che l’“Egitto” non sia un destino; in secondo luogo, significa articolare l’idea di un modello di società altra attingendo anche al serbatoio di immagini, concetti, parole con cui speranza e idee del futuro vengono articolate entro visioni religiose (al plurale) della vita. In terzo luogo, la sinistra dovrebbe essere capace di chiamare le religioni, ancora una volta al plurale, alla causa del cambiamento sociale, al fronte comune verso quei problemi planetari – fame, ambiente, pace – che senza il contributo delle grandi religioni mondiali sono, di fatto, irrisolvibili. Questo significa anche che, in quarto luogo, la sinistra (la sua base, molecolarmente, le sue classi dirigenti e la sua intelligentsia, se non organica almeno simpatetica) deve imparare a pensare come normale la voce delle religioni nella sfera pubblica, superando concezioni laiciste della laicità, pensando le istituzioni politiche come equidistanti rispetto a specifiche concezioni della vita, ma la società come un campo in cui forme di vita secolari e religiose convivono, in cui i confini tra le une e le altre non siano fissi, bensì fluidi e tali da generare, come spesso si dà di fatto, ibridi. Da ultimo, per la sinistra farsi postsecolare significa fare propria, in modo radicale e conseguente, la sfida del pluralismo; significa pensare come un valore la differenza, anche religiosa, accoglierla, difenderla e promuoverla come tassello di una più ampia battaglia per il riconoscimento del pluralismo nel nostro paese e in Europa. Chi pensasse il compito di una sinistra postsecolare confinato all’eterno dialogo tra cattolici e non credenti penserebbe ancora corto e provinciale.

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