LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

“Siamo qui, fratello mio”. Hrant Dink sei anni dopo

Memoria.

Sotto una pioggia a tratti battente, migliaia di persone hanno commemorato a Istanbul il sesto anniversario dell’assassinio di Hrant Dink, il giornalista turco-armeno ucciso il 19 gennaio 2007 davanti al portone degli uffici di Agos  (che oggi ospitano anche la International Hrant Dink Foundation), il settimanale in lingua turca e armena di cui era direttore. “Siamo qui, fratello mio”, è lo slogan scelto dall’associazione “Amici di Hrant Dink”, che ogni anno lavora con infinita passione all’organizzazione della commemorazione – quest’anno preceduta da una settimana di eventi, simposi, e dall’attribuzione a Noam Chomski (che dal balcone degli uffici di Agos ha rivolto un saluto alla folla) del premio Hrant Dink – e che giorno per giorno lotta perché la memoria di Dink sia tenuta viva. Dopo sei anni, l’attenzione potrebbe infatti scemare, la tensione anche emotiva calare, ma come il grande striscione davanti al santuario di fiori, candele, placche ricordo, piccole sagome di colombe (oramai il simbolo di Dink) esprime forte e chiaro, “non dite che è finita, questo amore è senza fine”. Dopo sei anni, giustizia non è ancora fatta, ma la tensione e l’impegno non solo della comunità armena, ma di tutta quella parte della Turchia che non cessa di chiedere più democrazia e diritti per le minoranze, tutte le minoranze, non scemano.

Un anno fa, alla fine della commemorazione avevo lasciato gli amici della Fondazione Dink in lacrime. Il processo era stato appena chiuso con una sentenza scioccante, che condannava sì l’esecutore materiale dell’omicidio, ma scagionava molti degli imputati e, soprattutto, negava l’esistenza di qualsiasi organizzazione dietro l’omicidio, copriva le responsabilità della gendarmeria di Trebisonda, e non investigava sui molti fili che legano l’omicidio di Dink alle attività illegali di Ergenekon, una organizzazione segreta che univa pezzi del ‘deep state’, militari, organizzazioni nazionalistiche, burocrazia, media, responsabile di tentativi reiterati di eliminare il governo Erdoğan, il movimento di Fetullah Gülen, e con una parte ancora da chiarire con precisione nelle uccisioni di Padre Andrea Santoro, dei tre missionari cristiani a Malatya, e in altri fatti di sangue della storia turca recente. Amarezza e pacata determinazione si respiravano anche quest’anno, nel discorso ad esempio di Hidayet Sefkatli Tuksal, scrittrice e giornalista del Taraf (musulmana, un messaggio importante mandato alla società turca) che ha preso la parola durante la commemorazione, e in quello di Rakel Dink, la moglie di Hrant. Quello che entrambi esprimono è lo sgomento e il senso di solitudine che lascia il vedere protette e in alcuni casi oggi addirittura promosse figure di pubblici ufficiali che parteciparono al clima d’odio contro Dink, quel ‘fumo’ che ne preparò l’uccisione (è il caso di uno dei giudici che nel 2005 condannò Hrant con l’accusa di aver ‘denigrato l’identità turca’, a fine 2012 nominato dal governo primo ombudsman, difensore civico nazionale). Ma nonostante tutto ciò, nonostante dall’esterno sembri venire solo del male come grida Rakel Dink, la richiesta di giustizia e l’appello alla memoria rinnovato da ogni settore della società raccolto sotto le finestre di Agos non si spegne.

Malgrado amarezza e rabbia, e malgrado reiterati recenti episodi di violenza contro armeni a Istanbul, quest’anno il clima era forse parzialmente meno cupo. Il 10 gennaio, infatti, il procuratore capo della Corte d’Appello ha chiesto all’Alta Corte di riaprire il caso e rivedere la sentenza di un anno fa, sostenendo che nell’uccisione di Dink è stata chiaramente coinvolta un’organizzazione criminale su cui non si è indagato, malgrado le prove esistenti. Il procuratore ha affermato che Dink è stato ucciso in quanto leader di una minoranza, e che il suo assassinio era parte di un piano sistematico di stampo nazionalista, volto a creare un clima d’odio contro tutte le minoranze, accusate di voler minare l’integrità dello Stato. Le parole del procuratore aprono uno spiraglio, fanno sperare in una riapertura del caso, ma è certo che in assenza di volontà politica, quella volontà politica di fare giustizia che ad oggi l’AKP, il partito al governo di Recep Tayyip Erdoğan, non ha dimostrato, il caso non verrà mai risolto. Eppure, l’AKP è stato per anni la prima vittima dei piani criminali di Ergenekon, in quanto espressione di una minoranza – non sociale, ma politica –, quella musulmana, essa stessa vittimizzata in decenni di repubblicanesimo kemalista. Ma dopo anni di speranze e di politiche almeno in parte effettivamente democratizzatrici, l’AKP si è accomodato – soprattutto dopo le ultime elezioni del 2011 – nella macchina statale, ne è diventato il nuovo proprietario, ha lasciato che al suo interno l’anima nazionalista prevalesse su quella pluralista, e va per questo perdendo l’appoggio di liberali, democratici e sinistra. Così, ormai sempre più si assiste alla politica di ‘un passo in avanti e due indietro’. Alla legge sulla restituzione delle proprietà alle minoranze non musulmane confiscate dallo Stato nel 1936 corrisponde la triste vicenda del Mor Gabriel, monastero siriaco che rischia le demolizione, perché dal Tesoro accusato di appropriazione indebita del territorio su cui è edificato, ritenendo non validi i documenti che in precedenza ne sancivano la proprietà; o ancora, per citare solo i casi più noti, la ferita ancora aperta del Seminario di Halki, vitale per la sussistenza della Chiesa ortodossa in quando sede della Facoltà teologica in cui si forma l’alto clero ortodosso, chiuso nel 1971 e ad oggi non ancora riaperto, nonostante le molte promesse del governo Erdoğan. Allo stesso modo, alle aperture nei confronti dei curdi in tema di diritti culturali, che pure hanno portato qualche risultato, corrisponde il massacro di Uludere, con l’uccisione di 34 civili scambiati dalle forze aeree turche per terroristi del PKK, per il quale non solo mancano ancora verità e giustizia, ma per il quale il governo ha anche rifiutato fino ad oggi il gesto, pure richiesto a gran voce dalla parte del paese non affetta dal veleno nazionalista, di scuse pubbliche. Gli esempi potrebbero continuare, a partire dal tanto discusso tema – anche in Occidente – di una libertà di stampa sempre più minacciata.

È per questo che la questione Dink ha così tanta importanza. Stabilire verità e giustizia conta per la famiglia Dink, conta per la comunità armena, ma conta per la Turchia intera. Dink è oramai un simbolo, lo va diventando anno dopo anno sempre più, di un Paese in cerca di pluralismo e di maggiore democrazia, e il processo Dink è un test cruciale per il governo AKP. Il presidente Gül, un anno fa, aveva espresso perplessità al cospetto della sentenza, speranza che il caso potesse trovare una soluzione più in sintonia con il sentire di una opinione pubblica che chiedeva giustizia, e promesso il suo impegno personale e istituzionale perché il caso non venisse definitivamente archiviato. Ad oggi qualche speranza si riapre, e forse il ruolo di Gül non è stato nullo. Ma sulla vicenda Dink, come recentemente a più riprese anche su altre, tra il Presidente Gül e il Primo Ministro Erdoğan si avvertono differenze, che non sono solo di personalità, ma forse anche politiche. Comunque sia, quale che sia il ruolo che la politica turca giocherà, gli amici di Dink saranno ancora sotto le finestre di Agos, a gridare “siamo qui, fratello mio”. A loro, una sfera pubblica europea democratica, ammesso che ne esista una, dovrebbe dare tutto il suo sostegno e solidarietà. La memoria di Dink non riguarda solo la Turchia, ma anche un’Europa che dell’‘altro’ – quel che gli armeni e le altre minoranze appaiono in Turchia alla vista offuscata dei nazionalisti – sembra avere sempre più paura. Se c’è un simbolo che esprime il sogno di vivere insieme, in giustizia e libertà, ciascuno con le proprie differenze, questo è Hrant Dink.                       Non dite che è finita.

  1. pero’ che coraggio questo magistrato della corte d’appello . gli uomini giusti
    si trovano dappertutto , loro dovrebbero governare il mondo a prescindere da credo politico o religioso, da nazionalita’ e via discriminando.

  2. Grazie intanto della bella “Memoria”, che ho provveduto a diffondere all’Associazione “ITALIARMENIA”
    presto, sono sicuro, verrai a trovarci a Padova, ci conoscerai tutti personalmente ed avremo assieme bei momenti da ricordare
    Gianni

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