LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Se lo scrittore usa la vita, senza fare tante storie

Sempre di più la letteratura tende a essere costipata di narrazioni fra il pop scolastico della “scrittura creativa” e le varianti dei generi/degeneri. Impazzano il noir e il giallo. Dilaga lo storytelling che ha contagiato l’impresa e la politica prona a quello che un tempo era l’autarchico “narrar frottole”. Per contro, con frequenza crescente, gli scrittori fuggono dall’equivoco che ciò costituisca l’esclusivo territorio del racconto, del romanzo, della fiction. Per non parlare della sovrabbondanza sugli scaffali dei titoli usa e getta concepiti grazie alla notorietà televisiva del conduttore, del politico e del personaggio che hanno tanta voglia di lei, “la narrazione”, ovvero cedono alle lusinghe degli editori a caccia di vip pur di arginare la crisi delle vendite. Le classifiche librarie, da anni, sono un ibrido tra Masterchef e Che tempo che fa. “Italiani popolo di santi, poeti e navigatori”. Sarà. Archiviata l’enfasi sartoriale made in Italy, oggi sembriamo più che altro un popolo, anzi un pubblico, di aspiranti cuochi e di rivoluzionari (aspiranti, s’intende). Di lettori, manco per il cavolo (nero, rosso, bianco, brussellese; bollito, ripieno, scottato, veloutée).

Tale prevalenza dello spettatore – quasi un tratto antropologico nelle librerie come nelle urne – sul lettore consapevole o “forte”, cioè non occasionale, è concausa ed effetto del fenomeno di cui sopra: il mutarsi della nozione di letteratura in altro da sé. In Qualcosa di scritto, edito da Ponte alle Grazie e finalista allo Strega 2012, Emanuele Trevi lamenta il tramonto della “naturale affinità elettiva” degli scrittori verso “ogni tipo di rivolta e sovversione, non importa se il bersaglio era l’ordine politico o le abitudini della vita interiore”. Così viene mortificata una forma preziosa e paradossale di cittadinanza: la comune appartenenza al paese ogni volta straniero e perturbante della letteratura, il patto nel nome dell’ignoto e del vertiginoso che per secoli gli autori e i lettori fin dalla tenera età davano per sottoscritto e sottinteso. Scrivere significava smarcarsi dal presente, non essere devoti alla greppia. Per edulcorare e confermare lo status quo c’erano Liala e le cosiddette “Liale della letteratura”, la caustica – ingiusta – definizione coniata mezzo secolo fa dai neoavanguardisti del Gruppo ’63 per prepensionare Giorgio Bassani e Carlo Cassola, infinitamente più eretici dei best seller dei nostri giorni.

Trevi aggiunge che a metà degli anni Ottanta “inizia un’epoca in cui l’eccellenza letteraria coincide sempre più con l’abilità ad intrattenere”. Invece egli iscrive nell’orizzonte testuale persone o testi frequentati in gioventù (Laura Betti e Petrolio di Pasolini) e preserva l’autenticità letteraria sottraendosi all’“ordine del racconto”, diremmo parafrasando Foucault. Nonostante la copertina di Qualcosa di scritto annunci un romanzo tout court, ecco dunque un memoir con incursioni nella saggistica o nel reportage, al pari di Storia della mia gente e Le nostre vite senza ieri di Edoardo Nesi (entrambi Bompiani). Premio Strega 2011, Nesi elabora il lutto dell’industria delle stoffe nella sua Prato e tesse l’autobiografia di una città arresasi ai cinesi. Sono sconfinamenti non disdegnati dagli autori di successo del “romanzo criminale”, almeno da quelli non corrivi con la Tv, vedi Giancarlo De Cataldo e Massimo Carlotto (è delle scorse settimane un convegno romano alla “Sapienza” sul noir fecondato dalla denuncia e dalla testimonianza storico-politica).
Sublimare i ricordi e le emozioni in trama letteraria per disertare il romanzesco: il dispositivo novellistico e/o documentario pare essere una via d’uscita dalla tirannide della fiction, che in italiano è voce del gergo televisivo, sta per sceneggiato, miniserie, feuilleton. In questa “corrente” talora il protagonista è dichiaratamente l’autore, tal altra è spurio o mascherato. Il punto di vista è corporeo, sensuale, sebbene disincantato, straniato. La forma, prosastica o diaristica. Del resto, è il taccuino di un filologo, LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer, a costituire uno dei libri più potenti sulle aberrazioni del nazismo, ancorché omesso nelle annuali celebrazioni della Memoria (Giuntina lo ha riedito nel 2011).
Autobiografia erotica di Aristide Gambìa è l’ultimo romanzo di Domenico Starnone (Einaudi 2011), carnale fin dal titolo, audace laboratorio della “mala contentezza” di un uomo alla soglia dei sessanta. In Diario d’inverno (Einaudi 2012) Paul Auster si dà letteralmente del tu nello specchio della stagione presenile e riassume una vita intera attraverso il proprio corpo: “un catalogo di dati sensoriali, una fenomenologia del respiro”. Storia di un corpo anche nel recente Daniel Pennac (Feltrinelli 2012), memoriale trasfigurato, per quanto abbiamo imparato da Philip Roth che la perenne tentazione di una Controvita sia in fondo semplicemente la vita (Einaudi 2010). Un’autobiografia esplicita a mo’ di aggiornamento triestino e poi romano del romanzo di formazione vibra in Ogni angelo è tremendo di Susanna Tamaro (Bompiani 2013), che, insieme a talune stroncature, va conquistando lettori d’eccezione da Claudio Magris a Vito Amoruso. Nel suo nuovo romanzo, L’uso della vita. 1968 (Transeuropa ed.), l’italianista Romano Luperini rivisita la gioventù a Pisa nell’anno fatale del “tutto e subito” e se il protagonista è un alter ego manifesto dell’autore, tra i “personaggi” che lo affiancano spiccano i giovani Massimo D’Alema e Adriano Sofri. Mentre Feltrinelli traduce Una specie di solitudine di John Cheever: taccuino, romanzo mosaicato e provvidamente destrutturato, ritratto di famiglia del “Čechov americano”.

A proposito di famiglie, Alexander Stille in La forza delle cose (Garzanti 2013) dà vita a una poderosa ricerca sulla “collisione dei mondi” dei suoi genitori, il giornalista ebreo russo italiano Ugo Stille e l’americana Elizabeth Bogert. Memorie private e vicende di massa nel XX secolo. Sul secolo greve è a suo modo un memoir lo splendido saggio postumo di Tony Judt, Novecento (Laterza 2012), lo storico britannico che dedicò un altro volume allo Chalet della memoria. Lo zibaldone di pensieri, visioni e ombre di Daniele Del Giudice fresco di stampa per Einaudi s’intitola In questa luce. E’ un libro autoritratto dello scrittore veneziano: “Avrei dovuto dirti, per esempio, quanto mi piace e dispiace questo mio mestiere, che non è un mestiere. Ne parleremo in un altro amore. Nel frattempo, che sollievo riconoscersi finalmente fragili!”.

Philippe Djian, l’autore del romanzo 37° 2 le matin da cui fu tratto il celebre film Betty Blue e del recente “Oh…” (Voland 2013), è stato tra gli ospiti del Festival de la fiction française, svoltosi fino a qualche giorno fa in quattordici città italiane. “La Lettura” del “Corriere della Sera” ha pubblicato l’intervento di Djian, un elogio della scrittura come lavoro incessante sulla lingua, nel campo dell’inatteso. Titolo: “La letteratura non è scrivere storie”.

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