LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Rinasce il documentario, torna la Nouvelle Vague. Rosi e Garrel a Venezia

A Venezia è l’anno del documentario. S’è detto e scritto alla vigilia e la Mostra sta confermando che il cosiddetto “cinema del reale” è necessario rispetto al deficit del giornalismo d’inchiesta, e, d’altro canto, è talvolta più dotato di qualità “narrative” rispetto alla fiction. Accade infatti che solo grazie a Ukraine Is Not a Brothel dell’australiana Kitty Green, visto qui a Venezia, i mass media si siano accorti che il movimento Femen (la protesta delle belle ragazze a seno nudo) abbia ben poco del “femminismo” finora attribuitogli. Di là dagli obiettivi delle Femen, contro Putin o Berlusconi, scopriamo che le pugnaci fanciulle sono state concepite a mo’ di brand globale (“Come McDonald’s”) e vengono eterodirette da un guru-ideologo dietro le quinte. Sicché certamente “l’Ucraina non è un bordello”, però è parte di quel reality show cui sempre di più in Occidente somiglia la “realtà” (virgolette d’obbligo, secondo l’invito lungimirante di Nabokov).

Intanto The Unknown Known del premio Oscar Errol Morris sulla figura di Donald Rumsfeld, di cui s’è scritto ieri, è piaciuto al punto che molti invocano la Coppa Volpi (o coppa volpe?) per il migliore attore allo stesso ex segretario della Difesa USA.

Ora tocca all’Italia schierare nel concorso principale un documentario ed è la prima volta da molti anni in qua. Il film è Sacro GRA di Gianfranco Rosi, il quale non ha alcuna parentela con l’anziano maestro Francesco Rosi di Le mani sulla città col suo afflato documentalista sul grande saccheggio urbanistico di Napoli, che giusto quarant’anni fa si aggiudicò il Leone d’oro tra i fischi. Lo si vede nei cinegiornali LUCE che, applauditissimi, anticipano ogni proiezione di Venezia 70. Nei suoi lavori precedenti, sempre molto apprezzati nei festival, Gianfranco Rosi ha spaziato dall’India al deserto americano, ai confini messicani del narcotraffico. Stavolta gioca “in casa”, sebbene con uno sguardo tanto straniante quanto empatico sui personaggi e le situazioni del Grande Raccordo Anulare, la cinta stradale di Roma, che fa di Sacro GRA un film paradossalmente sia brechtiano sia felliniano.

La distanza, l’occhio “giornalistico”, la documentazione frutto di un biennio di indagini e di vita lungo il Raccordo insieme al paesaggista Nicolò Bassetti, sono difatti contemperati con un’antropologia dell’osservazione che non esclude il regista/osservatore. C’è un gusto dell’aneddoto, dell’episodio sapido e del sorriso mai sugli altri, bensì con gli altri. Nel ventennale della morte di Fellini (oggi toccherà a Scola ricordarlo nel film-omaggio Che strano chiamarsi Federico!), Sacro GRA è in tal senso ben più “felliniano” di La grande bellezza di Paolo Sorrentino del quale nei mesi scorsi si parlò come di un aggiornamento di La dolce vita.

Rosi pensa e mostra “con lentezza”, si prende e concede il tempo per conoscere i suoi eroi/antieroi quotidiani. Chi sono? Un botanico impegnato a curare le palme del Raccordo aggredite dal micidiale Punteruolo rosso; il barelliere del 118 che va su e giù tutto il giorno e alla sera si prepara un piatto di spaghetti mentre è in chat con donne sole quanto lui; un anguillaro-“filosofo” che vive sulle rive del  Tevere; un nobile piemontese decaduto e sua figlia perennemente dinanzi al computer in un alveare condominiale;  un principe-impostore che ha trasformato la sua magione in una sala per matrimoni, fotoromanzi, convegni, spettacoli fiabeschi. Stralci del reale/surreale in un viaggio che Rosi dichiara influenzato da Italo Calvino (Le città invisibili) e che ha voluto dedicare a Renato Nicolini, l’architetto e assessore alla cultura delle innovative “Estati romane” negli anni Settanta, scomparso nel 2012.

Uno spirito sessantottino non lontano da quello da cui mosse Nicolini, ma con una vena più mesta che gioiosa, soffia nel secondo film in gara ieri a Venezia, La jalousie (La gelosia) del francese Philippe Garrel. Il sessantacinquenne regista già vincitore di due Leoni d’argento lagunari (nel 1991 per J’entends plus la guitare e nel 2005 per Les amants réguliers) è un erede – il più fedele – della Nouvelle Vague che fra amore e politica, ovvero fra Truffaut e Godard, dette una scossa di realismo “selvaggio” alle cinematografie di mezzo mondo alla fine degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, rinverdì il mito di Parigi e divenne a sua volta leggendaria. Garrel adotta il bianco/nero e usa la pellicola invece della cinepresa digitale per restituire la “grana” e il “corpo” del cinema che fu, il che ha fatto andare in brodo di giuggiole le schiere di cinéphiles presenti al festival.

La jalousie è un film dichiaratamente autobiografico visto che il protagonista trentenne col broncio del bello e impossibile Louis Garrel (figlio sciupafemmine del regista, novello Gérard Philipe ed ex di Valeria Bruni Tedeschi) ridà vita nel suo ruolo a una vicenda biografica del padre del regista, il nonno di Louis. Un attore lascia la sua compagna e la loro bimba per andare a vivere con un’altra, anche lei attrice, che a sua volta lo tradirà (è Anna Mouglalis, lanciata in Italia da Romanzo criminale di Placido). Lui si spara un colpo al petto, ma non riesce a suicidarsi: la pallottola gli perfora un polmone. Al suo fianco, in ospedale, ci sarà solo sua sorella. Tutto ciò che gli resta, oltre la passione per il teatro.

 (Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 6 settembre 2013)

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