LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Quattro ragazze, uno di questi giorni. Note sul film di Piccioni

Dal film "Questi giorni" di Giuseppe Piccioni

Dal film “Questi giorni” di Giuseppe Piccioni

Quali sono oggi i riti di passaggio all’età adulta? Come agisce il distacco dalla prima gioventù, con quali tormenti e speranze? Dove si colloca la conradiana «linea d’ombra», se ancora ve n’è una riconoscibile nel groviglio delle relazioni orfane di ideali collettivi? L’amicizia può valere da appiglio contro il caos? Quattro ragazze, una storia on the road da un’anonima provincia italiana fino all’inedita meta di Belgrado, un regista di grande esperienza ma con lo sguardo candido della «prima volta». E poi tutte le domande di cui sopra, senza l’affanno o l’ipocrisia di offrire sempre una risposta univoca. Ecco Questi giorni di Giuseppe Piccioni, in sala dopo essere stato in concorso all’ultima Mostra di Venezia, dove i giudizi critici si sono divisi: da una parte il rispetto per l’ironia e la malinconia della storia, dall’altra una certa sufficienza rispetto alla singolarità dell’approccio di Piccioni. Già, come se fosse una colpa la distanza dal «canone» in voga delle commedie dal ritmo sostenuto e dal gergo giovanilistico o localistico.

Le quattro interpreti di Questi giorni, assai brave e bellissime senza la tracotanza corriva delle divette televisive, sono invece colte nel passaggio a zigzag fra l’incanto e il disincanto, all’opera con le prime (prime?) vere difficoltà della vita. La fiera Liliana/Maria Roveran è malata, ma non vuole rivelarlo alla mamma parrucchiera un po’ svampita (Buy), mentre entra in confidenza con il suo relatore di laurea (Timi). Caterina Le Caselle/Anna aspetta un bambino da un compagno del Conservatorio. Laura Adriani/Angela si diletta a leggere il futuro delle compagne e intanto sbaglia fidanzati, forse perché sfodera un fascino «aggressivo» per superare le incomprensioni familiari (il padre è Sergio Rubini in un gustoso cameo pugliese). Infine c’è Marta Gastini/Caterina, innamorata di Liliana, è in fuga perenne, cerca luoghi che siano non luoghi, «divagazioni» o «assenze» dal presente. In tal senso, Belgrado – dove ha ottenuto un ingaggio da cameriera – le pare perfetta. Le amiche decidono di accompagnarla in automobile, con gli inevitabili incontri e gli scontri fra di loro, lungo il percorso o all’arrivo.

Piccioni segue queste giovani donne con delicatezza, anzi le «pedina», per dirla con Zavattini, la cui lezione è sublimata in un’impalpabile tenerezza, fraterna più che paterna. Il film appare scevro di qualsiasi tesi sulla gioventù o del sociologismo di maniera, non è programmatico, asseconda le paure e i desideri del quartetto in viaggio. E, soprattutto nella prima parte, riserva dei momenti di «distanza» dall’azione,  mostrando le protagoniste allineate tutte insieme in brevi panoramiche che sembrano al ralenti: sequenze come interstizi del racconto, «frammenti del discorso amoroso» un po’ alla Barthes.

Certo, qualche lungaggine si poteva evitare, ma Questi giorni ha il suo punto forte nell’apparente punto debole: il pudore verso la fragilità e le incertezze delle ragazze. È la loro sfida ed è la sfida di un piccolo, prezioso film.

«QUESTI GIORNI» di Giuseppe Piccioni. Interpreti principali: Maria Roveran, Marta Gastini, Laura Adriani, Caterina Le Caselle, Filippo Timi, Sergio Rubini, Margherita Buy, Mina Djukic. Commedia, Italia, 2016. Durata: 120 minuti
Recensione apparsa sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 20 settembre 2016 

  1. QUESTI GIORNI di Giuseppe Piccioni. Sceneggiatura di Chiara Atalanta Ridolfi e Pierpaolo Pirone

    Un film brillante e commovente, romantico, sincero e trasparente; molto equilibrato nella orchestrazione del racconto; quattro personaggi femminili – per soffermarsi solo alle protagoniste – non stereotipati, bensì, sapientemente e dettagliamente disegnati.
    Una delle poche pellicole italiane odierne profondamente curate, capaci di essere realmente polifoniche.
    Si narra di quella striscia di tempo, che tutti attraversiamo nella vita, ineffabile, provvisoria, bella, entusiasmante e, del pari, dolorosa, in cui non si è più adolescenti, ma ancora non si è adulti. Dove la voglia di scappare verso un Altrove qualsiasi e quella di restare, il bisogno (l’illusione?) d’indipendenza e la necessità di sostegni affettivi solidi, la nostalgia e la paura, la leggerezza e l’urgenza (a tratti rabbiosa) di capire la realtà in cui siamo immersi e -conseguentemente – di capire cosa desideriamo per davvero, si mescolano inestricabilmente, si fanno più pressanti.
    In definitiva, parliamo di quel periodo dove – parafrasando il finale del film – non succede niente ma cambia tutto.
    Per il resto è un viaggio di iniziazione e di formazione: e i viaggi come questo non si raccontano, si fanno.
    Un film così intenso e penetrante, per le suggestioni liriche, metaforiche e i richiami metaletterari che contiene, non si può riassumere senza rischiare di svilirlo e banalizzarlo. Per cui, andate e guardatelo: e ognuno ritrovi se stesso, a suo modo, nella tappa, nella scena, nel dialogo che preferisce.
    Un solo consiglio: la chiave per attraversare quest’opera poetica (la migliore di Piccioni, emotivamente ricca e densa, scritta e realizzata con grande rigore, che talvolta, senza citarlo, richiama il miglior Rohmer), si trova soprattutto nella prima sequenza: se seguite le parole del Professore, a proposito del Paradise Lost di Milton; se osservate lo stile sobrio del girato, in cui ogni inquadratura vuol essere esplicitamente uno scatto fotografico, capirete che questo è un film da ascoltare con gli occhi e vedere con l’udito.
    E dopo i giorni del viaggio? Che succede, dopo, quando il tempo non ha mantenuto le sue promesse, quando si è capito che “se una cosa si rompe, bisogna rimettere insieme i pezzi, almeno provarci”, sempre?
    A questo punto comincia quella parte della vita che chiamiamo futuro: l’unico tempo a cui devi dare il lei, perché non lo conosci, anche se lo hai intravisto nel vaso di vetro di una candela. La sola cosa da fare è accertarsi di aver ”messo da parte qualcosa per l’inverno”, anche per chi – più imprevidente, o solo più sfortunato – ” non ha trovato riparo”.
    Claudio Beghelli

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