IL SOTTOSCRITTO

Gianni Bonina

Giornalista e scrittore. Vive a Modica. Ha pubblicato saggi di critica letteraria, romanzi, inchieste giornalistiche e reportage. È anche autore teatrale. Ha un blog all'indirizzo giannibonina.blogspot.com

“Prison Break”, come evadere dalla credibilità

Prison Break è una serie cult divenuta storica. L’anno scorso, dopo otto anni, è tornata in Italia per la quinta stagione, la più breve, appena nove puntate. Si tratta di una di quelle serie che allo stesso tempo sono bellissime e bruttissime. Questa lo è perché ricca di colpi di scena, rivolgimenti di situazioni, azione e tradimenti, e perché del tutto spericolata nel tentare l’inverosimiglianza e l’implausibilità, non facendosi gli autori scrupolo alcuno di contraddirsi sfacciatamente, piegando la realtà e la credibilità alle ragioni della sceneggiatura. Se c’è un personaggio che vale far morire, così da colpire con una sorpresa le attese del pubblico, Prison Break ha certificato e dimostrato che ciò è possibile, anzi necessario ai fini della spannung che nelle serie Tv governa ogni puntata. Se poi lo stesso personaggio occorre in azione nel prosieguo della trama allora basta resuscitarlo senza ricorrere al trascendente. E’ successo a Sara, è successo a Michael, al capo della Compagnia, saltato addirittura in aria in un’auto imbottita di esplosivo e sopravvissuto con una escoriazione al volto e un braccio appena ustionato.
Prison Break è la serie che alla sospensione della incredulità ha richiesto il massimo apporto, anche rischiando di mutarsi da un crime drama in un fantasy. Dirigenti della produzione hanno dichiarato che nulla di quanto appare incredibile è improbabile o impossibile, tutto trovando spiegazioni realistiche. Ma come spiegare che la fine della quarta stagione mostra la tomba di Michael Scofield con la data di morte segnata all’11 aprile 2005 quando nelle prime scene della quinta stagione si vede la stessa lapide con la data di morte corretta all’11 aprile 2010? I cinque anni di differenza sono stati necessari per mantenere agli attori delle quattro stagioni un aspetto che dimostrasse cambiamenti fisici compatibili con i sette anni di fermo della serie, il periodo che nella fiction corrisponde ad alcuni avvenimenti non narrati: la resurrezione di Michael, il matrimonio di Sara, la nascita del figlio, il ritorno di Lincoln alla vita di prima, la conversione all’islam (necessaria ai fini dello svolgimento) di Benjamin Miles, la carriera fatta da Paul Kellermann che sembrava fuori gioco.
La serie è diventata un brand più per la sua durata che per le sue qualità, tant’è che non figura in nessuna classifica top hundred. Ciò per un motivo che sta alla base di ogni regola narratologica: la sospensione dell’incredulità non è illimitata se non determinando un cambiamento di genere. In questo caso la credulità è richiesta allo spettatore non solo in moltissimi accadimenti ma anche quanto alla struttura e ad alcuni motivi di fondo.
Michael si fa imprigionare per fare evadere il fratello che addirittura il vicepresidente degli Stati Uniti vuole che finisca sulla sedia elettrica per un delitto eccellente che però non ha commesso. Michael vuole farlo evadere per salvarlo e per dimostrare la sua innocenza. Cosa che è se è giustificabile per un fratello non lo è per tutti gli altri che cooperano all’evasione. L’innocenza di Lincoln può infatti bene essere provata a prescindere se venga giustiziato o meno, anzi la sua morte peserebbe ancora di più sui reali responsabili perché colpevoli di una condanna ingiusta. Invece ben due stagioni sono dedicate a un’evasione che in realtà pregiudica la posizione non solo del condannato ma anche dei complici che potrebbero impiegare le loro risorse nello sforzo di incastrare i colpevoli piuttosto che in quello di finire anch’essi in carcere e rendersi impotenti. Questo deficit originario condiziona l’intera serie, che è costretta per il suo titolo a inanellare tre evasioni in altrettanti carceri in giro per il mondo dai quali non è mai scappato nessuno. Il risultato è una ripetitività che rasenta lo stucchevole, ancor più perché ideatore delle evasioni è un Michael Scofield che risulta una specie di scienziato e di Nembo Kid, capace di ogni sottile prova di intelligenza e di ogni azione militare: anche quando, operato di un cancro al cervello, qualche giorno dopo lo vediiamo in un sotterraneo a scavare, saltare e correre come un salutista della domenica.
Un altro vizio strutturale è quello che implica i sentimenti. Ogni personaggio cede per salvare figli, mogli, fratelli e mariti, così provando che l’affetto familiare è il valore supremantico. Tuttavia la madre di Michael e matrigna di Lincoln non ci pensa due volte a ordinare l’uccisione del secondo e a puntare la pistola contro il primo, né i fratelli si rivelano meno crudeli e impietosi nei suoi confronti.
Costruita con notevoli spargimenti di fondi economici, Prison Break vale come favola leggera ma cade come thriller, rivelando che quel che conta in ogni storia è appunto la storia, quella che viene raccontata per parlare della serie e che qui è poca cosa, cosparsa com’è di incongruità che riguardano ogni aspetto: alleanze che si stringono e si disfanno solo per convenienza, cambiamenti di squadra senza giustificazioni, persone che meritano, per il male che hanno fatto, di essere uccise ma che sono risparmiate proprio dalle loro maggiori vittime, matrimoni come quello di Sara con il capo dell’ultima Spectre in campo (chiamata, per esaurimento di denominazioni, “degli scissionisti”) che rivelano una donna così amabile e così ingenua, ignara per sette anni della vera identità del marito che non si capisce perché ha sposato: anche lei una specie di scienziata in medicina, benché le sue competenze siano limitate all’infermeria di un carcere.
Non c’è altra serie che come Prison Break dimostri quanto esse siano un prodotto che, sebbene cresca sempre più, hanno un grave peccato originale. Un difetto di fabbrica che le mina sin dall’inizio. Nessuna viene realizzata seguendo un copione già scritto, come trasponendo fedelmente un romanzo, ma tutte nascono da un pilot, che se piace e funziona germina una prima stagione e lascia che le successive si ingradino a vista, procedendo a piccoli passi, con sviluppi che sono perlopiù trovate, mancando quindi un orizzonte, uno sguardo d’insieme e panoramico, un senso complessivo dell’opera. Se piace al pubblico, la serie continua, altrimenti si ferma. E più piace più merita investimenti economici che significano anche risorse per scene più appassionanti, ma con la conseguenza anche che più continua e meno la storia regge, basandosi sempre più sull’imprevisto. E’ pur vero che l’anima della vita è proprio l’imprevisto, ma in narratologia tutto può essere ammesso, tranne l’imprevisto che senta del casuale e della coincidenza. In Prison Break la coincidenza è spinta al punto tale che un’intera famiglia, madre, padre e i due figli, si ritrova a lavorare in una organizzazione clandestina di cui nessuno al mondo sa niente. L’agnizione è uno strumento della sotie francese e come tale rientra nella commedia: quel che è Prison Break, dove i troppi disvelamenti di identità concorrono a condurre lo spettatore a non farsi domande, a credere a quel che vede e immaginarlo pure reale.

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