L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Pasolini

Sono passati 40 anni e mi ricordo ancora perfettamente come venni a sapere la notizia, chi me la diede, dov’ero e la sensazione di sgomento che mi costrinse a sedere per sostenere un giramento di testa che mi destabilizzava. Era come se mi rendessi conto che era successa una cosa grave, grande, importante, qualcosa che sapevo essere un pezzo di storia, anche se era ancora solo cronaca del giorno prima.
Ho pensato spesso a quel giorno, in tutte le occasioni in cui, negli anni successivi, si discusse del ruolo degli intellettuali, della funzione della poesia, della società dei consumi o del 68, di quel 68 in cui Pasolini seppe dire cose spiacevoli:

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

Ci ho pensato spesso, perché spesso ho sentito la mancanza della sua voce, ma soprattutto perché quella voce non mi piaceva, in particolare per quel tono da grillo parlante che si coglieva chiaramente quando sembrava volerci dire che eravamo tutti dannati, omologati, repressi, corrotti. Mi piaceva il modo in cui scriveva, ma non mi piacevano le cose che diceva, non mi piacevano i suoi film, tranne qualche scena di Uccellacci e uccellini. Li trovavo esagerati, sempre sopra le righe, a volte del tutto scostanti come Salò, un mondo totalmente diverso da quello che invece mi ha sempre affascinato di Federico Fellini. Non mi è mai piaciuto il suo modo di parlare di sesso, provocatorio, faticoso, che alludeva a cose che sembravano più spiacevoli della repressione in cui ci collocava.
Però mi piaceva il suo modo di scrivere, la sua capacità di spiegare cose che non condividevo. Se si vuole immaginare un modo per descrivere la funzione culturale della tradizione, vengono alla mente le sue parole:

Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli

e si può dire che proprio là sugli Appennini o sulle Prealpi non vogliamo tornare, in quei paesi chiusi su se stessi in cui il giudizio dei vecchi seduti intorno alla fontana condannava per sempre chi si scostava da come si è sempre fatto.
Quella insistita e radicale polemica contro l’omologazione e il consumismo mi sembrava un modo più colto ma non molto diverso da quello di mio nonno di rimpiangere il bel tempo andato, di non voler ammettere che forse le lavatrici hanno contribuito molto alla liberazione, persino di quel popolo da cui uscivano i poliziotti di Valle Giulia.
Però non potevo fare a meno di leggere i suoi articoli, le sue poesie, per irritarmi, per pensare ai motivi per cui non ero d’accordo.
Forse perché nelle sue parole si scoprivano il gusto della cultura, l’ansia della conoscenza, l’ispirazione del bastian contrario e soprattutto le contraddizioni. Recitava il grillo parlante ma si contraddiceva e poteva concludere la sua invettiva su Valle Giulia con parole di grande contraddizione e, per questo, di grande ricchezza:

A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione) eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte / del torto) erano i poveri.

Che fastidio questa giornata di celebrazione sui mezzi di comunicazione e che bello contraddirsi cercando sommessamente di parteciparvi. Se ripenso al 2 novembre di 40 anni fa, sento ancora quel giramento di testa per una morte incomprensibile di un poeta con cui non ero quasi mai d’accordo, ma di cui avevo bisogno.

  1. Pier Paolo Pasolini non era un grillo parlante, era uno scrittore morale ma non era un moralista, detestava il moralismo in tutte le sue forme, così come detestava lo stato delle cose, lo stato borghese. Aveva il senso del peccato come colpa della origine ma scriveva:

    Guai a chi non sa che è borghese
    questa fede cristiana, nel segno
    di ogni privilegio, di ogni resa,
    di ogni servitù; che il peccato
    altro non è che reato di lesa

    certezza quotidiana, odiato
    per paura e aridità; che la Chiesa
    è lo spietato cuore dello Stato.

  2. Quando gli Anni Sessanta
    saranno perduti come il Mille,
    e, il mio, sarà uno scheletro
    senza più neanche nostalgia del mondo,
    cosa conterà la mia “vita privata”,
    miseri scheletri senza vita
    né privata né pubblica, ricattatori,
    cosa conterà! Conteranno le mie tenerezze,
    sarò io, dopo la morte, in primavera,
    a vincere la scommessa, nella furia
    del mio amore per l’Acqua Santa al sole.

    Da PP. Pasolini, Poesie Mondane, 23 Aprile 1962

  3. Largamente d’accordo, professore. Anch’io il più delle volte ne ero irritato, anzi a dirla tutta mi sono trovato a sostenere tesi contrarie se non opposte a quelle di Pasolini. Continuo a non condividere il suo catastrofismo, i toni da profeta stridulo e approssimativo. Il suo celeberrimo Io so è una dichiarazione di impotenza, il segnale di una strada a fondo chiuso. E poi…

    E poi – per quel che conta il mio parere – le poesie sono appesantite dal ruralismo e dall’ideologia, i romanzi oggi illeggibili salvo forse il primo, che mantiene il sapore della emozione di quando si scopre qualcosa, quale che sia questo qualcosa. I film invece sono belli, forse non tutti, certo non Porcile. Salò si rovescia nel suo contrario, allontana per eccesso. Non parliamo di Petrolio: sarebbe stato meglio lasciarlo agli studiosi, mentre oggi langue in un’edizione da cartolibreria. I film che non smetterei di rivedee sono quelli in cui Pasolini andò a cercare il dramma nella sua forma assoluta – Cristo, la Grecia arcaica – e in un certo senso del termine fuori dalla storia. Non era insomma storicista: azzardo questa parola non nel suo senso tecnico.
    E poi la sua capacità di lavoro, enorme. Che a sera, a notte, credeva di placarsi in una vitalità malposta, per tornare ad ardere a ogni mattina. Disamabile. Era un intellettuale, questo sì, nel senso storico del termine: non mi sono accorto che qualcuno ne abbia colto e restituito questo suo lato da Intellettuale alla francese, enragé. Che non abbia eredi e continuatori consegue, credo, paradossalmente dalla sua stessa prolificità. Troppe, e quanto diverse, le note della sua tastiera; e troppe le sue tastiere stesse.

    Perdoni la mia invadenza. Quarant’anni fa ricordo anch’io benissimo dov’ero, e con chi, e quanto durò la mia afasia, mancanza di fiato. E oggi devo dire che di nessun altro intellettuale ricordo – contro me stesso – tante cose come di Pasolini, se non di Sciascia. Guarda caso un altro francese; ma qui mi fermo. E saluto.

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