ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

MODIFICARE LA FORMA-PARTITO

La massiccia decrescita delle iscrizioni ai partiti da qualche milione a qualche centinaia di migliaia significa che è caduto l’interesse per la politica da parte dei cittadini? È caduta la domanda di politica o è peggiorata la qualità dell’offerta di politica da parte dei partiti? Dove, per “offerta” si intende non solo il messaggio ideologico e programmatico, ma anche “la forma-partito” e le conseguenti modalità di partecipazione degli associati alla vita di partito.

La risposta a questi quesiti dipende se essa muova dal lato della domanda o dal lato dell’offerta.

Chi domanda politica dice che è peggiorata l’offerta di politica, chi la offre chiama in causa i mutamenti socio-economici e culturali, la globalizzazione, i social, l’infosfera…

La quérelle è tuttavia fasulla: sì, i cambiamenti sono profondi, la domanda di qualità non è mai cessata, l’offerta non è più all’altezza.

Ovviamente, anche i gruppi dirigenti dei partiti sono, fin dagli anni ’80 almeno, consapevoli dell’inadeguatezza della propria offerta.

Perciò hanno tentato variamente di modificarla.

I tentativi si svolgono tutti nel contesto di una struttura della democrazia, in cui il piatto della bilancia del rappresentare cade in basso e quello del governare schizza verso l’alto. In un contesto, in cui i partiti tendono assai più a identificarsi con lo Stato che a rappresentare la società civile. Questi squilibri hanno segnato profondamente tanto i contenuti del loro messaggio quanto la forma-partito. Qui parliamo esclusivamente di quest’ultima.

Fino al 1994 – anno di inizio della Seconda repubblica – era prevalente il modello del centralismo democratico, teorizzato o no che fosse: i tesserati si riunivano in un congresso territoriale di base, eleggevano i delegati al Congresso cittadino o provinciale, che eleggeva i delegati al Congresso nazionale. Il quale eleggeva gli organismi dirigenti, fino al Segretario. Questo era il modello del PCI, che aveva una variante politeistica nel PSI e nella DC: il centralismo democratico si applicava solo all’interno delle correnti; una volta assestate nelle loro dimensioni, esse contrattavano tra loro la spartizione degli organismi e, se al governo, dei Ministeri. La base del potere reale era il numero delle tessere. La compravendita delle quali veniva praticata e anche scoraggiata in vari modi, non sempre efficaci.

La crisi di rappresentanza dei partiti fece tramontare quel modello. Non possiamo indagare qui sulle cause internazionali, in primo luogo, e su quelle culturali che spiegano l’emergenza dei partiti del leader. I leader nascono originariamente come Padri-fondatori. Così fu per i partiti del CLN. Così è stato, più recentemente, il caso di Bossi, di Berlusconi, di Di Pietro. Il modello del centralismo democratico viene superato in nome della conferma plebiscitaria del leader, senza più intermediazioni, da parte degli iscritti. Chi prima praticava il centralismo democratico e non aveva più bisogno di Padri-fondatori dovette comunque piegarsi alle esigenze della leadership plebiscitaria. Donde il meccanismo delle primarie adottato dal PD anche per la scelta degli Spitz-Kandidaten alle cariche di Sindaco o di Deputato. Con ciò si passa dal centralismo democratico al centralismo carismatico. Questo passaggio ha fatto saltare le Sezioni territoriali, che diventano Circoli e, di fatto, Comitati elettorali, divisi non più per linee politico-culturali, ma per legami di leadership. L’identificazione della figura del leader di partito con il capo del Governo, che a livello europeo è normalmente praticata, senza con ciò ridurre i partiti a tappetini del leader, in Italia trasforma quasi immediatamente il partito in Comitato elettorale nazionale. L’assenza di Padri-fondatori moltiplica gli aspiranti alla leadership. Così le antiche correnti, che nel PCI scorrevano carsicamente e a cielo aperto nella DC e nel PSI – sempre per limitarmi ai partiti maggiori – si sono trasformate in “correnti dei capi”, che poi trattano “gli affari” al caminetto. Nonostante le apparenze sfavillanti della democrazia diretta, le Unità di base dei partiti hanno cessato di funzionare come luoghi di dibattito, formazione culturale, confronto di idee. Organizzano confronti tra “papaveri”, interventi dal pubblico di un paio di minuti, giusto il tempo di schierarsi e basta così. A questo punto la discussione ha preso la via dell’Infosfera, dove impazza, ai livelli spesso demenziali. Ma l’imbarbarimento emotivo e settario del confronto pubblico nell’Infosfera non è la causa, ma l’effetto della distruzione dei luoghi della discussione collettiva e della partecipazione alle decisioni. Le retoriche della “Comunità politica”, della “Piazza grande”, dell’ ”Agorà” nascondono malamente il fatto che l’associato non discute e non decide. Deve solo schierarsi.

Chi scrive continua a pensare che la forma-partito sia necessaria per convogliare e filtrare verso la sfera pubblica le infinite pulsioni individuali della società civile, senza che il loro magma bruci la società e lo Stato. I partiti sono il necessario antemurale delle mura della Città.

Quali che possano essere gli strumenti tecnici di socializzazione e comunicazione tra le persone, il partito ha il compito di proporre un’ipotesi di interpretazione di ciò che accade nella società, un asse attorno a cui annodare le molteplici interpretazioni individuali. Ha perciò il compito di fornire conoscenze, narrazioni coerenti, ipotesi esplicative, formazione culturale, sguardi sul mondo. Ed ha, alla fine del laborioso processo di ruminazione democratica, il compito di chiamare alla decisione. La partecipazione alla discussione si deve tramutare in co-decisione. Decisione che poi sarà riversata nei contenitori istituzionali e rappresentativi, che a loro volta sceglieranno una linea di azione. La democrazia non è solo pensiero, è azione.

La crisi dei partiti, non di tutti e non nello stesso tempo e allo stesso modo, nasce qui: l’associato discute poco e male, e non decide. L’ambito delle decisioni è sequestrato in stanze segrete, in caminetti oligarchici, dentro scatole nere.

Dunque e infine, la questione fondamentale che i partiti si rifiutano di affrontare e tampoco di risolvere è quella della democrazia interna. Al cittadino si presentano come macchine arrugginite, come mulini incapaci di macinare, perché la grande ruota non è più spinta dalla forza dell’acqua. I partiti sono ridotti a oligarchie e ciascuno, al loro interno, all’accordo passeggero di gruppi oligarchici.

La cattiva reputazione di cui soffrono presso l’opinione pubblica sembra non tangerli. Ma che ciò renda più fragile la democrazia italiana, il consenso dei cittadini verso le istituzioni è un dato di fatto. Che sia dunque necessaria una legge di regolazione della democrazia interna dei partiti sembra inevitabile.

Ne ha accennato anche il neo-segretario Enrico Letta nel suo discorso programmatico. Ne hanno scritto molti studiosi, tra gli ultimi Amato e Lanchester.

L’art. 49 della Costituzione stabilisce: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E’ evidente che non basta più, giacché i partiti dispongono di enormi poteri, al di fuori di ogni controllo.

Il 19 novembre 1946, in piena Assemblea costituente, nel corso della riunione della prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, il Presidente Tupini pose in discussione una proposta di articolo presentata dagli onorevoli Merlin e Mancini: “I cittadini hanno diritto di organizzarsi in partiti politici che si formino con metodo democratico e rispettino la dignità e la personalità umana, secondo i principî di libertà ed uguaglianza. Le norme per tale organizzazione saranno dettate con legge particolare”. Concetto Marchesi e, dopo di lui, Palmiro Togliatti respingono decisamente l’idea di una legge regolativa. Poiché “non pochi sono del parere che il PCI tenda invece ad una dittatura del proletariato, cioè ad una forma di tirannia…un futuro governo, anche con basi democratiche, potrebbe, servendosi dell’articolo in esame, mettere senz’altro il partito comunista fuori legge”. Da allora la faccenda si è bloccata. Il sistema dei partiti è diventato partitocrazia”.

È ora di cambiare passo. Di riordinare le istituzioni e di ridefinire la forma-partito, che delle istituzioni è, appunto, l’antemurale.

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