LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Moderato, cauto, o kemalo-islamista? Erdogan e la ‘primavera turca’

Per chi ama la Turchia e ne segue da vicino le vicende, le notizie e le immagini di queste ore e di questi ultimi giorni non possono che provocare un profondo turbamento, comunque la si pensi. Per chi cerchi di capire e dare un senso agli avvenimenti, una spiegazione, e possibilmente ipotizzare sviluppi, districarsi tra le testimonianze, le reazioni a caldo e le valutazione più ponderate di amici e colleghi, ora ‘hard kemalist’ ora filo AKP – il partito al governo di Tayyip Erdoğan –, è tutt’altro che semplice. C’è da invidiare chi vede quadri in bianco e nero, situazioni chiare e nitide. O, forse, da diffidare.

È da un decennio che intorno al governo AKP e alla figura del suo leader incontrastato si fronteggiano tesi contrapposte: chi vede in quello turco un modello – con le dovute cautele esportabile in altri contesti medio-orientali – di conciliazione tra Islam e democrazia, una forma di Islam moderato e pragmatico, e chi vi scorge una agenda ‘nascosta’ di islamizzazione da perseguire con cautela, una volta resi inoffensivi i tradizionali custodi della laicità della Repubblica, in primis i militari. Naturalmente, non stupisce che questi siano giorni di gloria e malcelata soddisfazione per quanti hanno sempre ritenuto che, al di sotto delle buone maniere e della prudenza, anche nell’AKP e in Erdoğan si nascondesse la solita natura liberticida dell’Islam totalitario. Dopo la vittoria nel referendum del 2010, e dopo quella nell’ultima tornata elettorale del 2011, i timidi e contraddittori passi in direzione di una democratizzazione del paese – a partire da una apertura nei confronti delle minoranze religiose e culturali – avrebbero lasciato il passo ad una marcia sempre più forzata in direzione delle repressione delle opposizioni e dell’affermazione di un progetto di re-islamizzazione del paese. Dalla repressione della libertà di stampa e di espressione (molti i casi anche noti recenti), alla imposizione di uno stile di vita ritenuto consono alla moralità islamica, fino alla ostentazione anche simbolica della grandezza ottomana, tutto oramai parlerebbe scopertamente di un Islam dalla voce arrogante, anche nel più moderato dei suoi contesti.

In queste ultime settimane, a far discutere (animatamente) sono state soprattutto quattro questioni, dal forte valore simbolico e legate si direbbe da un unico filo rosso. Il provvedimento parlamentare che estende il bando degli alcolici nelle ore serali e notturne e ne vieta perfino la pubblicità in molte aree, in nome della sicurezza pubblica e della salute individuale – sostiene il governo –, o in virtù della volontà di educare una generazione dallo stile di vita islamico, secondo le opposizioni;  la campagna di ‘moralità pubblica’ che intima  di non scambiarsi baci nella metropolitana – come i cittadini di Ankara si sono trovati ‘invitati’ a fare da grandi avvisi posti dalla municipalità – a seguito di immagini registrate di comportamenti ritenuti eccessivamente affettuosi in pubblico, e che ha scatenato pittoresche contro-manifestazioni soprattutto nella capitale; l’inaugurazione della costruzione del terzo ponte sul Bosforo (solo uno dei progetti grandiosi e dal forte sapore simbolico in cantiere), contestato da ambientalisti e urbanisti, e dedicato per scelta governativa al sultano ottomano Selim – scelta problematica non solo per il riferimento celebrativo al passato ottomano, ma anche e soprattutto per quello specifico ad una figura ritenuta dagli Alevi (la minoranza islamica non sunnita che conta milioni di persone) responsabile di uno dei peggiori massacri della storia ai danni di questi ultimi; da ultimo, la questione ovviamente del Parco Gezi, a ridosso di Piazza Taksim, centro simbolico della Turchia laica, oggi sulla via di diventare la Piazza Tahrir turca, il cuore di quella Primavera turca che inesorabilmente doveva arrivare a segnare la fine di un’epoca, l’inizio forse della fine dell’ennesima dittatura – per quanto soft –, questa volta di colore verde, a dire chiaramente che il futuro delle altre primavere, se vorrà essere un futuro di libertà, non potrà comunque guardare alla Turchia, e che solo nel mondo della favole gli islamisti presto o tardi non mostrano il loro vero volto.

È del tutto evidente che la protesta, nata come forma di opposizione alla trasformazione di un giardino storico della città (e sul suo significato ‘storico’ si appunta parte della discussione di questi mesi) in area commerciale e caserme ottomane ricostruite, si sia ormai trasformata in protesta e opposizione politica al governo Erdoğan che si sta diffondendo in molte parti del paese, a partire dalle tradizionali roccaforti kemaliste Izmir e Ankara. Opposizione di chi a cosa esattamente, però, non è del tutto chiaro. La lettura più semplice è quella che vuole in piazza la Turchia laica e secolare, figlia del progetto di modernizzazione kemalista e di Atatürk (le cui immagini tornano in piazza in queste ore), stanca dell’autoritarismo islamico e delle sue oramai sempre più indiscutibili mosse. La richiesta che viene dalla piazza di dimissioni di Erdoğan dice che lo scontro, da sempre ora latente ora esplicito, tra la Turchia europea e assetata di libertà e stili di vita occidentali, da un lato, e quella islamica, dall’altro, è di nuovo allo zenit. Si tratta di una lettura certamente non priva dei suoi elementi di verità, ma da cui si potrebbero trarre conseguenze in termini prognostici e normativi profondamente errate e pericolose. Si potrebbe cioè pensare e sperare che qualora la piazza riesca a dare una spallata al governo Erdoğan, tutti ci auguriamo senza violenze subite o perpetrate, un governo guidato dall’attuale opposizione erede del partito di Atatürk, il CHP, garantirebbe un ritorno a quella democrazia laica, europea, modernizzante, che ha per decenni rappresentato il miglior alleato dell’Occidente in quel delicato scacchiere del mondo. Il problema è che le cose sono più complicate di così, molto più complicate. L’opposizione all’AKP è sovente fatta di una sinistra che mischia linguaggio anti-imperialista e anti-occidentale tout court, e di un nazionalismo ostile nei confronti di ogni identità che non sia quella etno-turca. In piazza Taksim ci sono oggi sì sensibilità ambientaliste preoccupate per una cementificazione selvaggia di Istanbul, che da un decennio almeno segue l’unica legge urbanistica degli appetiti del capitalismo liberista – sensibilità ambientaliste anche interne all’Islam, che lo si creda o no; c’è una sinistra marxista-leninista arrabbiata contro la destra capitalista, di cui Erdoğan è ritenuto, non a torto, un consigliere d’amministrazione; ci sono hooligans delle tre squadre di calcio della capitale, che hanno conti propri con la polizia; ci sono kurdi e altre minoranze, ma ci sono anche i nazionalisti espressione del kemalismo di destra più duro, i nostalgici della democrazia sotto tutela militare. Tutto ciò rende il quadro più complesso di quanto la semplicistica contrapposizione laici/islamisti possa far credere; una contrapposizione che viene incontro al bisogno di semplificazione, agli interessi ora in buona fede ora ipocritamente celati di un Occidente e di un’Europa che non aspettavano altro che di poter ribadire la necessità del loro DNA cristiano, ma che non ha molto valore interpretativo.

Cercherò di essere chiaro, a  rischio di cadere a mia volta in semplificazioni. L’errore sta nell’ossessione islamofobica, nel pensare che l’autoritarismo di cui Erdoğan ha sempre come personalità politica dato prova e di cui sta dando prove sempre peggiori dal 2011 ad oggi, abbia un che di specificamente islamico, che vada messo in conto ad un progetto di islamizzazione del paese.  Non c’è nessun progetto del genere. Non in Turchia. Erdoğan e l’AKP stanno solo dando prova, dal 2011 in avanti, di essere sempre più vicini alla cultura propria di quello che con felice acronimo è stato chiamato da İshan Hilmaz l’“homo LAST” – facendo la eco al WASP (White Anglo Saxon Protestant) –, ossia al modello ideale del ‘laicista, atatürkista, sunnita e turco’. Un’identità che tiene per intersezione – al peggio, non per progressista contaminazione e mutua trasformazione – la cultura politica e l’identità kemalista secolare del nazionalismo etnico di destra, con quella islamica sunnita anch’essa profondamente nazionalista. La sintesi islamico-turca insomma, il virus del nazionalismo, che non ha colore specificamente verde ma l’attitudine giacobina e molto moderna – come ci hanno insegnato Voegelin e Eisenstadt tra gli altri – a voler plasmare e dominare la società usando la politica e all’occorrenza la religione. Di questa attitudine all’ingegneria sociale per via politica, che vuole plasmare ora generazioni kemaliste ora generazioni di buoni turchi sunniti, chi fa le spese è l’enorme pluralismo della società turca, da sempre sotto il tallone di una cultura statalista e nazionalista di cui l’AKP sta dimostrando di essere più erede che alter-ego. Negli ultimi anni, in sostanza, l’AKP si è accomodato dentro le stesse strutture burocratiche che per un decennio aveva dato prova di voler contrastare, ne è diventato il nuovo proprietario in luogo dei tradizionali poteri: se alcune elite – come quelle militari – hanno visto ridimensionato il loro potere, altre hanno semplicemente cambiato padrone. Una sintesi kemalo-islamista di cui fanno le spese ancora una volta le minoranze intra-islamiche (gli Alevi), quelle non islamiche e quelle secolari pluraliste e democratiche.

Per capire cosa succederà ora bisognerà vedere non solo quale sarà il comportamento della piazza, troppo composita perché si possa prevederne facilmente le mosse, e quello di Erdoğan, troppo testardo e determinato per cedere facilmente alle richieste della piazza ma troppo furbo per non capire dove e quando la corda rischia di spezzarsi. Bisognerà vedere anche il comportamento dei militari, mai escludibili in Turchia dal quadro una volta per tutte, e della Corte costituzionale. Ma non poco peserà anche il ruolo del presidente Gül, che subito ha lanciato appelli al buon senso a tutte le parti, e non da oggi in frizione su questioni pure delicate con il Primo Ministro, nonostante una vita politica condivisa, e quello di settori del governo più moderati di Erdoğan, come il vice primo ministro Bülent Arınç; così come non poco peserà il ruolo di Fethullah Gülen e del suo movimento, vera spina dorsale di una società, non di una politica, islamica moderata, che negli anni ha fatto molta strada da un iniziale nazionalismo statalista ad una posizione molto più aperta alle minoranze, e fautrice di democratizzazione e pluralismo. E qualcosa conterà pure, per quel che conti in assoluto, la posizione che prenderà l’intelligentsia del paese. Fino al 2011, in assenza di una sinistra pluralista e multiculturalista, le speranze progressiste della Turchia hanno poggiato sull’alleanza politica e culturale tra un AKP impegnato a contenere e ridimensionare il ruolo di tutela dei militari e di altre elite kemaliste, e forze liberali e democratiche che nell’AKP hanno visto lo strumento capace di coniugare modernità e democrazia, di contro a una modernità senza democrazia propria delle elite kemaliste. Quell’alleanza si è oggi spezzata, perché l’AKP assomiglia sempre più a quelle forze che ha contrastato per dieci anni. Per quanto l’impresa possa sembrare disperata, il ruolo dell’intelligentsia nel ripristinare quell’alleanza potrebbe non essere l’ultima variabile in questione.

 

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