L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Medievale e post-medievale

È molto interessante la riflessione che si sta sviluppando, a partire dal dossier Dispute filosofiche, anche sul blog di Ocone. Provo a contribuire con una rapida illustrazione di un punto di vista che viene da lontano ma forse può avere un qualche significato.

Agostino, nel Contra Academicos, afferma la stretta connessione tra felicità e verità, sulla base di una argomentazione di questo genere: vogliamo essere felici (ricordo il nesso tra verità e bene richiamato da Ocone con riferimento al libro di Simone Weil), felicità è vivere secondo ragione, quindi felicità implica verità. Il problema diventa dunque se sia possibile essere felici anche senza possedere la verità, ma a condizione di cercare la verità e la discussione si concentra sull’alternativa se sia felice chi possiede o anche chi solo cerca la verità.

Un passaggio decisivo per comprendere la posizione di Agostino è Contra Academicos 1.9

Ammetto che non sia perfetto chi non giunge al fine.Ma quanto alla verità di cui parli, penso che la conosca soltanto Iddio, o forse l’anima dell’uomo dopo aver abbandonato definitivamente questo corpo, cioè quest’oscura prigione: Il fine dell’uomo è invece cercare perfettamente la verità.

 Si tratta non di cercare qualcosa di perfetto (verità in senso assoluto), ma di cercare perfettamente: perfecte quaerere veritatem; solo Dio o l’anima dopo la morte possono conoscere la verità, che risulta quindi una idea limite, fuori dalle possibilità conoscitive dell’uomo e forse anche fuori dalle sue possibilità di immaginazione.

 Più avanti – Contra Academicos 1.12. – si legge:

… non erra chi cerca perfettamente, per quanto non trovi la verità, ed egli è felice per il fatto che vive secondo ragione.

 Si delinea dunque la contrapposizione tra semper e perfecte: entrambi si riferiscono alla situazione della creatura e quindi alla dimensione del tempo, ma il primo è puramente quantitativo, il secondo qualitativo.

 Successivamente la discussione si concentra su che cosa si debba intendere per sapienza (Contra Academicos 1.23.):

… la sapienza a mio avviso è non solo la scienza, ma anche l’accurata ricerca delle cose umane e divine che importino alla vita felice. E se vuoi spartire questa determinazione, la prima parte, che possiede la scienza, spetta a Dio, mentre la seconda, che si accontenta della ricerca, all’uomo. Grazie alla prima quindi felice Dio, grazie alla seconda l’uomo.

Esiste una precisa differenza tra un aspetto statico (acquisizione definitiva) e uno dinamico (ricerca); il primo si riferisce a Dio, il secondo all’uomo.

Nei libri successivi del Contra Academicos si trova una lunga discussione sulle posizioni degli accademici, la cui inclinazione scettica sarebbe emersa soprattutto per non rivelare la credenza in un mondo intelligibile nel quale solamente si può porre la verità. L’annuncio cristiano rappresenta una novità decisiva proprio rispetto alle tesi degli accademici, secondo i quali la filosofia vera ha per oggetto l’intelligibile, ma agli uomini, che non sarebbero in grado di comprendere questa lontananza dal loro mondo empirico, è meglio proporre un atteggiamento che dubiti della esistenza stessa della verità (Contra Academicos 3.42), e la novità consiste nel riuscire a richiamare le anime dalle tenebre multiformi dell’errore, in quanto Dio ha piegato e abbassato sino al corpo umano stesso l’autorità dell’Intelletto divino …

 La fede nella incarnazione risulta un sostegno per la filosofia e un aiuto a superare la situazione di difficoltà in cui si era venuta a trovare la tradizione platonica.

 Si arriva così a due acquisizioni fondamentali: che la sapienza non sta tanto nel possesso della verità, quanto nella ricerca della verità, e che, anche dubitando di tutto, si può agire, fondandosi su presupposti e su scelte cui non è necessario dare l’assenso (e qui si può ricordare il pragmatismo su cui insiste Bosetti).

 La coppia concettuale fondamentale in cui si riassume tutta la discussione agostiniana è semper / perfecte. Nella dimensione del tempo (semper) opera la filosofia – per Agostino, il platonismo -, mentre nella dimensione della intensità della certezza (perfecte) opera la fede che porta ad accettare l’autorità della rivelazione, anche per sorreggere e far meglio comprendere proprio la filosofia.

 Il cammino della ricerca non avrebbe una forma precisa in quanto destinato a proseguire semper, lungo una sorta di curva che si avvicina a un limite indefinito senza mai raggiungerlo. Assume invece una forma determinata, e quindi un senso, in quanto si postula che a un certo livello di intensità si collochi la verità in senso assoluto, rappresentata in primo luogo dai dati della rivelazione. Anche se questo livello non è raggiungibile dalla conoscenza e dalla ragione umana, la fiducia nell’esistenza di un piano di riflessione teologica conferisce a esse una forma, ed è la forma della conoscenza probabile, dello scetticismo critico.

 Nessuna insensata pretesa di trovare in queste pagine una anticipazione delle riflessioni post-moderne, ma almeno il suggerimento che, se ci si libera delle visioni tradizionali del pensiero medievale, si trovano posizioni per così dire post-medievali.

  1. Non intendiamo farne un botta e risposta, ma l’intervento è tanto pertinente e stimolante che non possiamo esimerci dal fare qualche considerazione; e se verremo tacciati di continuo citazionismo non è per far sfoggio di una (limitata) cultura, ma per sostenere la nostra precisa convinzione che lo zoccolo duro del Vero filosofico sia un po’ come la pantera del De Vulgari Eloquentia di Dante. Ossia se ne sente l’odore anche se non si vede chiaramente.
    Intendo dire con ciò che esiste un atteggiamento comune a molti filosofi, a mio parere insito nella filosofia stessa, che è precisamente ciò di cui in tale sede si discute; e non dovrebbe perciò stupire il fatto che possa riscontrarsi in autori diversi e lontani (in tutti i sensi).
    Quello che Amalia definisce “punto di vista della totalità” mi ricorda molto (e qui, come dire, giochiamo in casa) la visione delle cose “sub specie aeternitatis” di Baruch Spinoza, il punto di vista della filosofia, in cui le cose vengono viste nella loro assoluta necessità, dal punto di vista della totalità. Dice Spinoza che a tale facoltà conoscitiva corrisponde l’amore intellettuale di Dio, ossia… la Beatitudine! E che sappiamo di Spinoza? Che era un malinconico perenne! Dice uno dei suoi biografi che l’olandese era “di temperamento ascetico e malinconico”.
    Una contraddizione? E’ vero, la malinconia non è esattamente sofferenza, potrebbe dire qualcuno. Il fatto è che, fino ad allora, “malinconia” era un termine medico che designava una malattia collocata fra la tristezza ed, addirittura, la depressione. Con l’avvento dell’800, tale termine (assieme a quello “nostalgia”) trasmigrerà dal gergo medico a quello letterario.
    Torniamo però al cuore della questione. Spinoza, fra i filosofi più coerenti con la sua filosofia, che più si avvicinava alla “beatitudine”… un malinconico? Questo, ovviamente, è solo un esempio.
    Forse, approfondendo l’indagine, si vedrà come la contraddizione possa essere solo apparente… e si arriverà, forse, a conciliare la sofferenza della perdita di ogni consolazione (sofferenza esistenzialista) con il “senso del vero\bene” dell’altro punto di vista.
    Il territorio è pericoloso: ma proviamoci. Mi sembra ovvio attuare (e non lo farò qui dettagliatamente) almeno una “scissione dialettica”. Dividiamo ciò che è unito per meglio comprenderlo.
    Il filosofo è uomo, ed in quanto tale, è desideroso della verità\felicità. E molti vivono affamati di entrambe senza saperlo.
    Con l’arrivo al vero, il filosofo può appagarsi; perché la sua tendenza, la sua aspirazione, infine trova riposo. Ma il filosofo non arriva mai totalmente ad esso: ciò lo rende, e mi richiamo a Kant, Baudelaire e Wilde (principalmente) un SUBLIME. Non trova mai totalmente riposo, piena soddisfazione. Il fatto è, che nell’esercizio filosofico, Ricerca il vero di cui vive affamato (come l’Eros del Simposio) e, pur non appagandosi mai (non può) percepisce parte di quel bene, di quel vero.
    E qui, anche in quella provvisorietà tipica dell’esercizio filosofico (tipicamente platonica) ha parte della sua felicità. nella RICERCA, che crea dubbi senza dare risposte direbbe qualcuno, c’è un appagamento del “filo-sofo”; per quanto paradossale possa sembrare.
    Ma vi sono anche felicità più “pratiche” che pertengono a tutti gli uomini,
    Tali felicità sono certo illusorie (non autentiche) per chi forse non le fa veramente sue ricercandone le fondamenta, ma, come dissi prima; chi non sa di essere affamato in tali “illusioni” si può anche accontentare. Il filosofo, no, evidentemente. Ma chi ignora, ha l’illusione di essere felice. Cosa che il filosofo aberra, ma… siamo sempre li: gli incatenati prendono per pazzo l’uomo liberato dalla spelonca. Dice Gigi Proietti (che non è un filosofo, ma rende l’idea), facendo l’imbecille: “Sapete qui come si dice? Un uomo men capisce e più è felice”.

    Non vero logicamente (per i filosofi, almeno) ma nel mondo delle ombre; è un fatto.
    E ora, giusto per essere coerente con il non volere mettere troppa carne al fuoco, riaffermo, penso d’accordo con Amalia; proprio il Valore Autonomo della Ricerca. Fabrizio De Andre: <>. Basta sostituire le ultime due parole con il sostantivo Ricerca e il verbo “ricercare”.
    Ricerca non fine a se stessa, ovvio….

  2. Le riflessioni di sempre, uniti al recente studio di un testo stupendo che consiglio a tutti i filosofi e gli studiosi di filosofia (“i Greci e l’irrazionale”, di Doods) mi costringono a lasciare un commento breve ma intenso.
    In realtà mi sembra che la riflessione di Agostino si inserisca bene in una delle caratteristiche di sempre dell’indagine filosofica: la ricerca della verità connessa con la felicità.
    I filosofi sono felici? Si tratta certo di una banalizzazione estrema, ma la questione in realtà si pone in questi termini. Forse sarebbe preferibile la condizione degli incatenati che fissano le ombre, confortati da tutte le “verità” di quel mondo che sono assai più consolanti dell’abisso della riflessione filosofica. Le consolazioni della tradizione, della religione, di chi ha la terra sotto i piedi, insomma.
    Chi lascerebbe tale consolazione per l’ignoto? Eppure, l’autentico filosofo, se destato, non può fare a meno per AMORE DELLA VERITA’ STESSA di farsi carico della sua sofferentee uscita dalla caverna. Non può farne a meno.
    Non riesce a tornare alle consolazioni di chi vive in catene, essendo innamorato di quel profumo di libertà e verità che ha sentito. Per dirla con le parole di un altro medievale, tanto per cambiare: “una volta abbandonata la fede tradizionale, non sperare più di tornarvi: perchè condizione essenziale di quella fede è che tu non sappia di essere un tradizionalista.” Al Ghazzali.

    Ma poi, che rimane? Felicità?
    La soluzione di Agostino è decisamente neoplatonica: scegliere quanto ci sembra migliore e condurci su quelle riflessioni. E ciò conduce alla felicità? Ricordo Leopardi: liberi delle illusioni, si arriva alla consapevolezza del proprio nulla: di quanto, anzi, la vita COMPRESA RAZIONALMENTE non sia che sofferenza…

    Sostengo, per concludere, che il privilegio del dubbio porti alla felicità soltanto in alcune circostanze: credo che alcuni filosofi, del passato e del presente, PUR ATTUANDO LO STESSO ATTEGGIAMENTO INCAPPINO, per circostanze direi persino empiritiche, IN DESTINI FATALMENTE DIVERSI.

    Ma per il resto, mi sembra comunque valida, per entrambi gli esiti (felicità nel cercare e infelicità per le cose a cui si arriva) l’affermazione del mio Bruno: “Chi aumenta la sapienza, aumenta il dolore”.

    • Il commento di Daniele sul nesso della ricerca della verità con la felicità e la coppia concettuale semper/perfecte sviluppata da Agostino nel Contra Accademicos per indicare il reciproco sorreggersi della filosofia e della teologia, mi suggeriscono di prendere in considerazione l’esigenza del risvolto prassico che si impone all’atteggiamento di scetticismo critico. L’urgenza di questo intervento è dettata anche dal fatto che, come dice Agostino ad Alipio a proposito della loro discussione, “Si tratta della nostra vita, di come dobbiamo agire, dell’animo il quale confida di vincere l’ostilità di tutti gli inganni” [C.A. II.22].
      La sofferenza sorta dalla libertà dalle illusioni richiamata dalle parole di Leopardi sembra essere una condizione inevitabile per il filosofo destato dalle illusioni e desideroso di verità. Tuttavia, adottando un altro punto di vista, non più quello della dimensione temporale nella quale l’uomo è immerso e in cui strepitano le contraddizioni, ma il punto di vista della totalità, dell’eternità, i risultati della ricerca, che rendono infelici chi li osserva dal mondo, appaiono invece dotati di senso, orientati a un fine che poi non è altro che il punto oltre la temporalità cui tende il filosofo: il vero, il bene. Perché soffermare l’attenzione sulla sua irraggiungibilità come facevano gli Accademici nel dialogo agostiniano? Non è questo ciò che domanda il mondo in cui abitiamo. Neppure domanda la disperazione o la fuga di chi, svegliato dalle consolazioni dei grandi racconti, non vede altro che contraddizioni fluenti nel divenire incessante della storia.
      Un filosofo de XIV secolo, Nicola d’Autrecourt, in alcuni passaggi sembra ben suggerire l’importanza dell’impegno pratico del filosofo, dell’amico della verità che, levatosi in piedi, “ha fatto risuonare la tromba per svegliare dal sonno coloro che dormivano”.
      Nel discorso autrecourtiano il livello teologico è rappresentato da Dio inteso come limite della conoscenza (in quanto si crede di Dio che sia “una qualche facoltà conoscitiva che conosce le cose dall’eternità e in modo chiarissimo” [Trattato, p.257]) e come principio del bene.
      La ricerca del filosofo, tesa sempre al proprio rinnovamento, è tuttavia limitata all’esperienza e alle congetture, orientate secondo il criterio del meglio, che si possono fare per oltrepassare il suo ambito. L’amico della verità, consapevole dei limiti della conoscenza umana, così non si perderà in vane “discussioni di logica o nel sottoporre a distinzioni le espressioni poco chiare di Aristotele”, come facevano gli pseudo-filosofi, cioè gli aristotelici parigini, ma, come il filosofo platonico, si farà guida del popolo rendendogli manifesto il “significato della legge divina”.
      I ruoli del filosofo e del legislatore sembrano essere complementari. Infatti, se compito del filosofo è quello di cercare il sapere “affinché la realtà si manifesti chiara all’anima” [Trattato, p.37]; il legislatore invece persuade gli uomini avendo di mira l’azione; ma è il postulato di Dio che consente l’impegno concreto nella prassi: per un rinnovamento della ricerca del vero e per un’azione nel mondo orientata al bene.
      Se non vi fosse alcuna verità da cercare, alcun bene da perseguire, realizzabili solo in una prospettiva di eternità, ne andrebbe pure della felicità dell’uomo: “ogni uomo infatti desidera l’eternità del proprio essere e ad essa tende per natura. Per cui, metti da parte ogni legge positiva, e dì alla collettività degli uomini che essi cesseranno di esistere proprio come i cavalli, dei quali si pensa che muoiano: essi andranno in depressione (tristabuntur) e per loro sembrerà che la vita sia solo un gioco di prestigio: una cosa ora c’è, ora non c’è”. Senza nessuno stimolo per la ricerca, per la possibilità di modificare il reale, che senso avrebbe vivere? Come potrebbe rispondere Nicola, è meglio che un senso ci sia.

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