L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Mediazione

Dalle nostre parti persino Dio, quando interviene nella storia del mondo o degli uomini, apre – per usare una terminologia sindacale – tavoli di contrattazione, anche se bisogna ammettere che non esistono interlocutori alla sua altezza. Ma proprio questo è significativo: la contrattazione e la mediazione se le cerca da solo, se le impone da solo. È unico ma si triplica per poter articolare la propria vita e il proprio modo di fare, per potersi sedere – come nella famosa icona trinitaria di Andrej Rublëv – intorno a un tavolo e aprire un confronto.
Se vuole creare, prima ci pensa producendo le proprie idee nel Verbo, poi pronuncia le parole, ne parla, e così pone le cose e le sottopone a una sorta di giudizio da parte dello Spirito, che verifica siano buone. Nemmeno per salvare gli uomini Dio se la sente di agire come singolo, e allora manda il Figlio, il Mediatore per eccellenza, che cerca di ristabilire un rapporto tra gli uomini e il loro creatore, di superare la rottura che si era verificata all’interno del Paradiso terrestre.
Se vuole parlare alle sue creature, non manda direttamente le sue parole a qualche profeta, ma ispira, suggerisce, si affida alle capacità umane, accettando di aprire una serie infinita di possibili interpretazioni, di trattative, di confronti.
Senza naturalmente voler stabilire una relazione causale diretta, forse non è solamente un caso che l’importanza di affrontare i problemi parlandone, confrontando proposte diverse, mettendo talvolta ai voti le possibili soluzioni, si sia accentuata nel corso dei secoli proprio dalle parti di questo Dio che sempre punta sulla mediazione, sul Verbo, sulla relazione. Ci sono voluti millenni, ma è forse per un contesto favorevole che proprio da quelle parti si è aperta la questione della cosiddetta democrazia, della scelta di affrontare i problemi attraverso il confronto e la costante ricerca di mediazioni. Sappiamo benissimo quanto contorta sia stata questa strada e quante eccezioni si potrebbero citare per sostenere che molto spazio si è trovato per soluzioni opposte e del tutto monocratiche.
Oggi forse ci troviamo alle prese con una questione assolutamente centrale che sembra poter capovolgere del tutto i principi di fondo della convivenza che abbiamo conosciuto. Sono naturalmente molti i fattori che andrebbero presi in considerazione, ma il punto di arrivo sembra essere proprio la cosiddetta disintermediazione, la possibilità di cercare rapporti diretti fra singoli isolati, senza riferimenti organizzativi, culturali, politici in grado di generare i livelli successivi di mediazione in cui abbiamo vissuto.
Un ruolo fondamentale è rappresentato nei nostri anni dall’informatica, o meglio dalla telematica, dalla opportunità di intervenire in molti ambiti senza passare attraverso i livelli di mediazione prima inevitabili. Non può essere un caso allora se un signore, nessuno per diritto ereditario, profetizza di una società in cui non abbia più necessità di esistere il Parlamento, il luogo essenziale della mediazione nella nostra tradizione democratica. Non sembra un tema all’ordine del giorno e allora è ancora più significativo che venga posto all’attenzione; appare lo spettro del superamento ideologico della logica della mediazione.
Forse siamo a una svolta molto più netta e decisiva di quanto possa apparire nella banalità della rete quotidiana: forse saremo chiamati a scegliere se evolvere all’interno di una logica del confronto, della discussione, della comunità o abbandonare – del tutto lecitamente – questo ecosistema antropologico, ma essendone almeno consapevoli.

  1. Caro Dino

    complimenti per la consueta lucidità. Quindi lascia che sfrutti la tua intelligenza ancora un po’. Ma se la dematerializzazione e la disintermediazione sono in una relazione biunivoca con la globalizzazione? Non vorrei parere un apocalittico ma se l’orizzonatlità della relazione disintermediata è la cifra non solo della globalizzazione ma di gran parte delle relazioni sociali, e questa è diretta da piattaforme che coinvolgono tutta la nostra vita, costringendoci a risituare non solo i rapporti economici ma anche quelli antropologici (per esempio, la sharing economy è l’apoteosi del digitale in nostro favore o la punta di diamante della proletarizzazione di ogni ciclo produttivo senza mediazione di alcun tipo? e così per l’industria dei contenuti, parte della medicina etc.); insomma la domanda che ti pongo è: come se ne esce da questa nuova costruzione ideologica che si autoalimenta? Dato che se la contrasti sei a favore del capitale finanziario e se la sostieni sei ugualmente a favore del capitale finanziario? Non potremo non dirci integrati? E i poveri apocalittici?

    • La risposta, mi pare di poter dire, è il nascere di una contraddizione interna allo sviluppo neoloberista. La globalizzazione ha tolto ogni vincolo alle attività finanziarie e commerciali, ma al tempo stesso ha generato, all’interno dei singoli stati, un aumento del disagio sociale. Il protezionismo e il sovranismo sono una risposta a questo disagio, che si governa, sul piano interno con politiche autoritarie e prive di mediazione, ma che sul piano internazionale genererà tensioni crescenti nei rapporti commerciali e politici—la crisi turca che si ripercuote sulle banche europee ne è l’esempio attuale. Quando si capirà che le politiche protezionistiche di Trump favoriscono l’America, ma assieme all’Europa danneggeranno anche noi, forse succederà che anche il populismo nostrano perda la sua forza, ma ci vorrà ahimè, io credo, molto tempo.

  2. Non so che cosa ne pensi il Grande Mediatore (dalle mie parti il mediatore era chi facilitava, per professione, i contratti tra i singoli) ma quello che penso io, anche se non conto proprio niente, è che la cosiddetta democrazia liberale ormai non serve più a nessuno nei luoghi in cui vengono prese le decisioni che contano nel campo dell’economia e della finanza. La globalizzazione ha soddisfatto il laissez-faire al massimo grado, attraverso la cosiddetta deregulation, che ha spazzato via le norme di mediazione nell’ambito delle attività finanziarie e il gioco è fatto. Non stupisce quindi che il cosiddetto sovranismo favorisca la deregulation sul piano sociale e politico, predicando e praticando la disintermediazione all’interno, accanto a un illusorio protezionismo, l’opposto della negoziazione, nelle relazioni con l’esterno. Insorgere per difendere le forme istituzionali di mediazione proprie delle democrazie liberali mi sembra una battaglia perduta in partenza. I resti di quella che fu la sinistra, oramai svanita nel nulla, non si accorgono che la radice della loro scomparsa sta nell’illusione che negli anni ’90 fosse ancora praticabile dalla cosiddetta terza via una politica sociale analoga a quella che portò alla realizzazione del welfare state nel secondo dopoguerra: una pura illusione che non si rendeva conto che quelle politiche non erano più praticabili per la perdita del controllo, da parte dei governi nazionali, sulla politica economica e finanziaria. Nello spazio economico globalizzato, le attività economiche e finanziarie sono oramai prive di limiti al laissez-faire e gli organi di mediazione istituzionale delle democrazie liberali non sono più il luogo dove se ne negoziano i limiti. Bisognava pensarci prima e ora piangere sul latte versato non risolverà nessun problema. La difesa della democrazia liberale resterà pura illusione se non tenderà al ripristino di una regolamentazione efficace, a livello globale, dell’assoluto laissez-faire economico e finanziario.

  3. Già Platone si era persuaso che i mali della democrazia provenissero dalla facoltà che chiunque aveva di uscire dalla sfera di propria competenza, per dire una parola in politica, di cui non possedeva nessuna particolare conoscenza …

  4. Mi trovi del tutto d’accordo – è tempo, come forse ricorderai, che sostengo l’idea un po’ azzardata di una dimensione religiosa pattizia, così come, sottolineo l’avvento e i rischi della disintermediazione, seppure nel meno nobile ambito editoriale e non politico in particolare, rispetto a una, mediata, umana e responsabile modalità di autorevolezza; così come sono fautore di una reputazione etica e non algoritmica; e infine sposo l’idea, di cui Eco fu maestro, del significato delle costruzioni della nostra realtà sociale alla stregua di un senso comune frutto di una sana, pragmatica e, di nuovo, umana, negoziazione concettuale. Quindi saluto con piacere questo tuo post, nella speranza di avere compreso correttamente le tue parole; o, forse no, e allora spero di potermi sedere al negoziato con il suo autore. Insomma, caro Massimo, parafrasando quel capolavoro di Pastorale del nostro grande Vescovo (Martini), che riprese e aprì a tutti i suoi amati testi sacri tanto studiati a Gerusalemme, fatti prossimo, anche solo tra noi, anche fuori dal cenacolo e anche su una strada comune, non solo quella di Gerico.

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