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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Lo spettacolo della pena capitale

Libri.

Il rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino sulla pena di morte nel mondo offre, dal punto di vista abolizionista, un quadro in chiaro-scuro. A fronte di un trend perdurante verso l’abolizione della pena capitale, infatti, non mancano segnali preoccupanti in direzione opposta. In un precedente post avevo segnalato come meritevole di attenzione non solo il dato relativo alla ripresa delle esecuzioni in paesi in cui esse sembravano destinate a essere definitivamente soppresse, ma soprattutto quello relativo al fatto che parte di questi paesi siano definibili democrazie liberali, ‘con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto’. Tra questi, naturalmente, in primo luogo gli Stati Uniti, la cui posizione in merito è sì del tutto peculiare, ma anche tale da insegnare qualcosa che va al di là del solo caso statunitense. La lettura del libro di David Garland La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo (il Saggiatore) suggerisce alcune considerazioni, che desidero condividere con i lettori.

In primo luogo, una questione di metodo. Almeno da un punto di vista sociologico, la pena di morte va considerata come un fatto sociale che esige spiegazione, ancora prima che come una questione morale. Di più: essa deve essere spiegata (sulla scia di Marcel Mauss) come un ‘fatto sociale totale’, ossia considerando non solo la pena di morte in sé, ma la ‘pena capitale’ nel suo complesso, “la totalità delle pratiche coerenti e incoerenti attraverso le quali la pena capitale è eseguita, rappresentata, e vissuta nella giustizia penale e nella società (americana)” (p. 41). Solo così, considerando cioè la totalità delle pratiche ad essa connesse, sarà possibile cercare di coglierne alcuni degli aspetti e funzioni che ne spiegano la persistenza anche entro democrazie liberali. In secondo luogo, una particolare attenzione meritano quelle pratiche che fanno della pena di morte uno strumento di comunicazione simbolica, una potente metafora, una sineddoche che consente di tracciare posizioni entro sistemi di valore in modo chiaro e inequivocabile. Tra i molti aspetti che ne fanno un fatto sociale totale e complesso, vale la pena riflettere insomma su quelli che una sociologia culturalista è più attrezzata per cogliere, e che vengono viceversa sottostimati da altri tipi di letture. Del resto, una lettura di tipo culturalista non esclude affatto l’attenzione necessaria ai risvolti politici, istituzionali, economici, legati alla ‘color line’, che determinano la peculiarità della pena di morte negli Usa; al contrario, essa ne è solo un necessario complemento. Al tempo stesso, una lettura culturalista mette in evidenza la centralità di motivi legati alla pena capitale che trascendono il caso statunitense, e che insegnano qualcosa sul sociale in quanto tale.

Per esemplificare, e passare alle questioni di merito. La peculiarità del caso statunitense non è comprensibile, come sostenuto con forza da Garland, indipendentemente dalla attenta considerazione dovuta all’assetto politico-istituzionale americano, e alla cultura politica che lo sorregge. A decidere della storia della pena di morte in America è una struttura localista in cui sono i singoli stati e non il potere federale ad avere il peso maggiore, nonché una cultura politica che esprime un forte impegno per le istituzioni di democrazia popolare e un altrettanto forte antielitarismo e antintellettualismo. Ciò significa che la giustizia penale è sostanzialmente politicizzata, rimessa all’influenza della politica elettorale, sottratta a burocrazie esperte potenzialmente contro-maggioritarie (come invece in Europa), ed esposta a variazioni anche molto significative da stato a stato e da momento storico a momento storico. In chiave comparativa, il caso Usa non è comprensibile senza la dovuta attenzione a questi aspetti.

Altri risvolti, tuttavia, di natura culturale, aprono il ventaglio delle considerazioni rispetto al solo caso Usa. La storia moderna della pena di morte è una storia contraddittoria. Da un lato, su di essa hanno influito l’umanitarismo liberale, il moderno culto dell’individuo con la sua credenza nella sacralità del Self, la ‘cultura della raffinatezza’ con la sua repulsione per la violenza fisica e la sofferenza. Tutti questi elementi hanno inciso profondamente nella ‘drammaturgia dell’esecuzione’, nella privatizzazione del rituale dell’esecuzione (sottratto per lo più alla pubblica vista) e nel suo incivilimento rispetto alle pratiche del linciaggio. Il protocollo dell’iniezione letale delinea i contorni di una esecuzione medicalizzata, burocratizzata, veloce, efficiente, conforme insomma a quel carattere proceduralmente ineccepibile non solo del due process of law al termine del quale essa arriva, ma anche al carattere tecnicamente performante e moralmente anestetizzato della moderna razionalità strumentale. L’umanitarismo e il culto dell’individuo moderni impediscono di mettere in piazza lo spettacolo dell’esecuzione o di fare della pena di morte un rito pubblico pari in tutto e per tutto al linciaggio. L’aspetto drammaturgico e teatrale deve essere ridotto al minimo, così da minimizzare la dissonanza cognitiva. La morte data diventa uno spettacolo proibito, una dura necessità di legge a cui ottemperare in modo efficacie, veloce e incruento. Una pratica burocratica da sottrarre al clamore pubblico.

Eppure, d’altro canto, le cose non stanno affatto solo così. Se la pena di morte persiste nonostante la sua palese inutilità in termini ad esempio di effetto deterrenza, è proprio in virtù delle funzioni che essa svolge, delle cose che fa accadere: non in ragione dei suoi effetti ‘negativi’, ma al contrario di quel che produce, genera, e che è legato ancora una volta alla sua dimensione drammaturgica e comunicativa. Tre aspetti mi preme sottolineare, che peraltro nella lettura di Garland sono perfettamente in linea con una sociologia culturalista di orientamento durkheimiano e con una sorta di ‘psicologia del profondo’ applicata al sociale che dall’opera di Durkheim trae la sua ispirazione: la comunicazione simbolica svolta dalla pena capitale; il suo carattere ‘dinamogenetico’ e, per finire, la sua capacità di discorsivizzare il tabù moderno intorno alla morte.

La comunicazione simbolica della pena di morte, in passato, era di carattere prevalentemente religioso. Gli aspetti teatrali e discorsivi (l’ultima cena, le ultime parole del condannato etc.) rimandavano a un ‘dramma della salvezza’ dell’anima del condannato che investiva l’uomo, lo Stato e il cosmo. La secolarizzazione moderna della pena di morte sostituisce invece la procedura burocratica al dramma della salvezza e riduce quasi a mere vestigia del passato le forme di comunicazione religiosa. Questo non significa, però, che essa abbia cessato di svolgere funzioni di comunicazione simbolica. Essa viene solo reinventata, e in forma secolarizzata (per semplificare) esprime le posizioni di una persona in merito alle questioni di ‘legge e ordine’. Anche l’adesione su basi religiose alla pena di morte (storicamente variabile, giacché con argomenti religiosi sono state condotte tanto campagne pro quanto contro), diventa solo un elemento di una più generale espressione di adesione ad una visione ‘tradizionalista’ della società, fondata su legge e ordine, di contro a concezioni ‘progressiste’, liberali e ‘permissiviste’. Del tutto indipendentemente da considerazioni relative alla sua efficacia o utilità, l’uso culturale della pena di morte viene reinventato in forma secolarizzata quale cifra stenografata del tipo di visione del mondo che si abbraccia, delle posizioni che si assumono in merito a valori e principi ritenuti fondamentali.  La pena di morte è una risposta allo sdegno collettivo per fatti non tollerabili, qualcosa cui la comunità è obbligata, un dovere che deve essere adempiuto in cui echeggia ancora l’originario spirito di vendetta, ma che oggi viene difeso in nome di una visione non barattabile relativa ai fondamenti stessi dell’ordine sociale.

Alla natura drammaturgica della pena capitale rimandano i suoi effetti ‘dinamogenetici’, produttori cioè di energie collettive. Nonostante l’influenza addomesticatrice della cultura della raffinatezza, del culto dell’individuo e dell’umanitarismo, la pena capitale rimane uno spettacolo pubblico. Indipendentemente dall’esecuzione e dagli aspetti più ‘lascivi e pornografici’ legati a quest’ultima e alla morte, la pena capitale ‘rappresenta una notizia’, è un ‘dramma eccitante che attira l’attenzione’, uno ‘sport di grande richiamo’, un ‘evento di intrattenimento’ fortemente mediatizzato in cui folle e telecamere si alimentano a vicenda, che genera un vero indotto fatto di bestseller, film di successo, siti internet e blog. Così facendo lo spettacolo della pena di morte attiva e produce energie morali, forme di partecipazione collettiva ad un evento pubblico, alza il livello della temperatura sociale, sottrae al privatismo della vita quotidiana, immette nelle correnti di quella collettiva. Di queste energie morali la vita collettiva ha bisogno, non può farne a meno, e se la persistenza della pena capitale vuole essere spiegata è anche a questi effetti drammaturgici che bisogna fare attenzione, soprattutto in contesti in cui esiste una altrimenti debole cultura della solidarietà sociale (come negli Usa).

Da ultimo, la pena capitale ha una funzione liberatrice dalla repressione a cui è condannato il discorso sulla morte nella modernità. In una cultura tanatofobica come quella moderna, in cui la morte è negata, minimizzata, nascosta dietro le quinte; in cui benessere e giovinezza, vitalità e freschezza sono valori assoluti, la morte non cessa comunque di esercitare la sua attrazione repulsiva, il suo fascino morboso. La pena capitale consente di fare esattamente quel che è vietato: parlare della morte, parlare di uccidere in modo meno sgradevole, contemplare la possibilità dell’infrazione del tabù dell’omicidio. Il rito pubblico dell’uccisione viene sostituito dal rito mediatizzato del dibattito intorno alla pena capitale, e la repressione allentata almeno quel tanto che è necessario.

Queste tre funzioni – comunicazione simbolica, forza dinamogenetica e discorsivizzazione del tabù della morte – non sono legate al solo contesto statunitense, e soprattutto attengono al sociale in quanto tale, indipendentemente dalla forma politico istituzionale che una società assume. Indipendentemente da quest’ultima, una società ha bisogni profondi e non trasparenti, e l’uso culturale della pena capitale nella modernità si è adattato e reinventato, come Garland mostra chiaramente, in relazione ad essi. Senza una loro spiegazione non moralistica, anche la lotta abolizionista rischia di risultare del tutto velleitaria.

 

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