MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Libia, la guerra del petrolio, allarme rosso per Roma

Il generale chiude i rubinetti. E minaccia la bolletta petrolifera dell’Italia. La guerra per procura che si combatte in Libia è anche, e per certi versi soprattutto, una guerra per l’oro nero. Gli attori esterni che sostengono il fronte-Haftar o quello di al-Sarraj, sono mossi, in primis, dalla volontà di accaparrarsi le fette più sostanziose della “torta” petrolifera. Per Roma è allarme rosso.

La compagnia petrolifera statale libica NOC sta considerando la chiusura del suo porto occidentale di Zawiya e sta evacuando il personale della raffineria situata lì a causa di scontri nelle vicinanze, secondo quanto riferito sabato in una nota.  Il NOC potrebbe anche chiudere il giacimento di petrolio di El Sharara, il cui greggio viene esportato attraverso il porto di Zawiya, afferma la dichiarazione, aggiungendo che nelle ultime 48 ore, tre bombe hanno colpito vicino ai suoi serbatoi di petrolio. Il sito petrolifero di El Sharara, nella regione di Ubari, a 900 km a sud di Tripoli, ha una capacità di produzione di circa 315.000 barili al giorno, quasi un terzo della produzione libica totale. Mustafa Sanallah, il presidente del consiglio di amministrazione della Libyan Oil Corporation, ha dichiarato che interrompere le operazioni nel porto di Zawiya porterebbe a una riduzione della produzione di petrolio libica di non meno di 300.000 barili al giorno. Nei giorni scorsi, Zawiya è stata al centro di scontri tra gruppi armati, durante i quali un missile ha quasi colpito il complesso petrolifero. Le forze alleate del Governo di Accordo Nazionale (GNA), riconosciuto internazionalmente, hanno accusato venerdì forze orientali fedeli a Haftar di aver tentato di attaccare il complesso portuale petrolifero. E questo col sostegno di Ankara.

La Turchia che, per voce del ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, ha fatto capire che le intenzioni di Ankara sono quelle di prevenire il propagarsi dell’instabilità ad altri Paesi della regione, così come è avvenuto in Siria. “Se oggi la Libia diventa come la Siria, poi (le rivolte, ndr) potrebbero propagarsi agli altri Paesi della regione. Dobbiamo fare tutto quanto è in nostro potere affinché la Libia non venga divisa e non piombi nel caos, ed è proprio quello che stiamo facendo. Noi trattiamo con il governo legittimo del Paese”, ha spiegato Cavusoglu, sottolineando l’importanza dell’accordo militare siglato con Sarraj. Ormai, dunque, è davvero questione di ore perché la mozione sull’invio delle truppe di Ankara in territorio libico venga discussa in Parlamento, come anticipato qualche giorno fa dal presidente Erdogan, ed è sempre più probabile che il conflitto nel Paese nordafricano veda l’inserimento di un nuovo, potente fattore che potrebbe di fatto cambiare le sorti della seconda guerra civile libica. Circa 300 ribelli siriani, cooptati dalla Turchia, sono stati già inviati a Tripoli per combattere a fianco dell’esercito libico di Sarraj contro l’offensiva di Haftar. Lo riportano diversi media internazionali citando l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Altri 900-1000 miliziani sarebbero stati invece trasferiti in campi di addestramento turchi in attesa di partire per la Libia. Secondo le stesse fonti l’ingaggio avrebbe una durata di 3-6 mesi ed un compenso tra i 2 mila ed i 2.500 dollari.

LA GUERRA DEL PETROLIO

Nei mesi scorsi la Noc, ha denunciato il tentativo delle autorità di Beida, in Cirenaica, di esportare illegalmente 650.000 barili di petrolio questa settimana. Lo rende noto la stessa compagnia petrolifera in un comunicato. “La Agoco, una nostra sussidiaria nell’est del Paese, ha avuto istruzioni da un funzionario di Beida di rifornire un cargo al terminal di Marsa-el Hariga”, ha spiegato il capo della Noc, Mustafa Sanalla, aggiungendo di aver informato il “primo ministro Sarraj ed il Consiglio Presidenziale, che ha compreso subito l’importanza della questione”. Il “caos petrolifero” ha un volto e un nome che ben lo raffigura: quello di Ibrahim Jadhran, il giovane capo delle Petroleum facilities guard, i miliziani che hanno in mano il pallino della produzione petrolifera, con le occupazioni e le incursioni di questi mesi. Il comandante Jadhran ha dato vita nelle scorse settimane al Governo autonomo della Cirenaica, facciata “istituzionale” dietro alla quale si celano mai sopite rivalità tribali e, soprattutto, gli appetiti milionari di bande capaci di tenere sotto scacco, e sotto ricatto, le più importanti major petrolifere che operano in suolo libico: la francese Total, l’Eni dell’Italia, la China National Petroleum Corp (CNPC), la British Petroleum, il consorzio petrolifero spagnolo Repsol, e poi Exxon Mobil, Chevron, Occidental Petroleum, Hess, Conoco Philps. Jadrhan promette di mettere fine agli scioperi qualora il governo centrale di Tripoli accetti una serie di condizioni tra cui il riconoscimento dell’indipendenza della Cirenaica.La sua brigata Hamza composta da migliaia di uomini armati in passato aveva  conquistato i porti petroliferi di Es Sider, Brega e Ras Lanuf bloccando la vendita di petrolio e facendo perdere al suo Paese circa 5 miliardi di dollari. Secondo Jadhran, Tripoli vende il petrolio estratto in Cirenaica ma non restituisce poi alla regione abbastanza di quanto guadagnato: «Il petrolio dovrebbe beneficiare tutto il popolo libico, ma non è così». Quella che è in atto è una lotta senza esclusione di colpi tra le tribù delle tre regioni Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che rivendicano più poteri e una fetta più consistente della miliardaria “torta petrolifera”, e un potere centrale sempre più debole e delegittimato. Il petrolio libico è di altissima qualità, estremamente facile da raffinare. La gran parte viene spedita verso l’Europa, principalmente in Francia e in Italia.Le ricadute di questa guerra dei pozzi sui mercati petroliferi possono essere devastanti. Soprattutto per quei Paesi che molto dipendono dalle forniture libiche. Tra questi Paesi, c’è, per l’appunto, l’Italia.

Al centro della contesa armata tra milizie locali vi sono anche gli oleodotti, una rete lunga centinaia di chilometri che si snoda dall’interno verso la costa Ma la questione che più preoccupa i produttori è quella della Cirenaica, la provincia orientale della Libia, quella al centro di intense rivendicazioni federaliste: si teme, insomma, che le tensioni politiche possano culminare in un blocco prolungato di porti pesanti sul piano del traffico petrolifero come Marsa el Brega, Zuetina, Bengasi e Marsa el Hariga, i centri che distribuiscono il greggio in arrivo da Sarir. Oltre alle tensioni con le milizie e le tribù, a rendere ancor più precaria la situazione, e a rischio la nostra bolletta petrolifera, è la crescita del movimento islamista, in particolare delle brigate  Ansar al-Shariah, quelle accusate per l’attentato alla sede diplomatica Usa di Bengasi, nel quale fu ucciso l’ambasciatore Chris Stevens. Dato che il Paese dipende per il 97% delle sue esportazioni dagli idrocarburi, e che tutti i libici ricevono sussidi e prebende dallo Stato, è facile capire come il tracollo della produzione sia una bomba a tempo che rischia di far esplodere la polveriera libica, con effetti destabilizzanti anche per gli altri Paesi della regione, Algeria e Tunisia in primis. A rendere ancor più complicata e ingovernabile la situazione sono le minoranze tuareg e amazigh (berberi) che hanno cominciato a protestare contro la loro marginalizzazione, inscenando proteste davanti ad alcuni terminal e pozzi petroliferi del Paese.

 

SENZA TREGUA

“Bombardamenti indiscriminati da parte delle milizie di Haftar hanno colpito il comune di Abu Slim (a sud di Tripoli ndr), provocando il ferimento di almeno 6 civili, tra cui un bambino in condizioni critiche, oltre alla morte di 1 civile a causa di un proiettile che lo ha colpito mentre usciva da una moschea”. E’ quanto si legge in un tweet dell’operazione “Vulcano di rabbia” del governo di accordo nazionale libico (Gna).

Al centro della “partita libica” vi sono due player: Russia e Turca. Rimarca in proposito, in una intervista a Il Sussidario.net il generale Marco Bertolini, già  capo di stato maggiore della Extraction Force della Nato: “Alla  Russia una Libia unita sotto la bandiera dell’Onu non conviene, la bandiera Onu vuol dire Stati Uniti, che hanno da sempre il controllo del Palazzo di Vetro. La Russia invece ha bisogno di avere un alleato in un Paese che, oltre alla Siria, sia utile per le  esigenze della flotta del Mar Nero. La Russia punta a una divisione”, rimarca Bertolini. E su questa linea può nascere il patto Putin-Erdogan: Anche la Turchia vuole la divisione – aggiunge Bertolini-. Limitando magari la sua area di influenza alla Tripolitania che è la zona più evoluta anche se meno ricca di petrolio. Che si siano messi d’accordo è una cosa possibile, e soprattutto fa fuori gli americani”. Per quanto riguarda l’Italia, il giudizio dell’ex di stato maggiore della Extration Force della Nato è tranchant: “Noi siamo cornuti e mazziati. Abbiamo avuto dall’inizio la possibilità di esercitare un’influenza, ma dire oggi che la soluzione è solo politica e non militare è pura retorica e niente altro. Ovvio che tutti vorrebbero la soluzione politica, anche chi si fa la guerra, ma se passano alle maniere forti è perché non hanno altri strumenti”. Spazzati via dalla Libia, messi ai margini di una sorta di “Jalta mediorientale” che vedrà seduti in prima fila le potenze,  regionali e globali, che hanno scelto da che parte stare. In mezzo al guado, nella palude libica, si rischia di affogare. E ciò che sta accadendo all’Italia. E questo è molto ma molto più grave, per le conseguenze che può determinare per gli interessi nazionali – dal petrolio alla sicurezza –  di qualsiasi schermaglia interna e sostituzione di ministri. Ma di questo, l’inquilino di Palazzo Chigi e l’apprendista della Farnesina sembrano non avere contezza. “Cornuti e mazziati”, per l’appunto.

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