THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Le riforme costano ma fanno risparmiare

Molti dei discorsi che fanno gli esperti di contabilità pubblica italiani partono da una premessa – mai dimostrata, mai messa seriamente in discussione – che le “riforme” costano.

Tale assunto sembra, del resto, accettato anche dal Documento di Economia e Finanza appena presentato dal Governo: una maggiore efficienza dell’amministrazione pubblica (che, pure, per definizione, dovrebbe corrispondere ad un minore spesa dello Stato) costerebbe circa 300 milioni di euro all’anno per i prossimi tre anni secondo la previsione sull’impatto delle riforme sulla finanza pubblica. Peraltro, il documento – commentano i più preoccupati – neppure affronta la questione ben più consistente del rinnovo dei contratti nel pubblico impiego che, per molti, è assolutamente propedeutico per poter far vivere le riforme della PA e che potrebbe costare ben di più dei 10 miliardi necessari a non far scattare il tanto temuto aumento dell’IVA.

Se la premessa sul “costo delle riforme” fosse vera, ci ritroveremmo, però, ancora una volta nel vicolo cieco dal quale non riusciamo ad uscire da decenni. Per ricominciare a crescere – lo stesso Def valuta che la riforma dell’amministrazione pubblica può aggiungere dal mezzo punto al punto intero di PIL nei prossimi anni – abbiamo assolutamente bisogno di trasformare in risorsa quello che è attualmente il peso della burocrazia; ma per riuscirci dobbiamo spendere soldi e capitale politico che non abbiamo. Il risultato rischia di continuare ad essere impantanati sul fronte della “madre di tutte le riforme” che il governo italiano ha messo al primo posto della sua agenda.  Tocca al ministro Madia risolvere, con pragmatismo e visione, questa contraddizione.

Il paradosso del costo delle riforme è vero, però, a metà. È vero che una riforma drastica dell’amministrazione pubblica non può prescindere da un cambiamento delle regole di ingaggio tra lo Stato come datore di lavoro e i suoi dipendenti e dirigenti. Sarebbe, tuttavia, un grosso errore interpretare il nuovo contratto come un prezzo – la cui entità è, peraltro, fissata in anticipo sulla base di automatismi predefiniti – da pagare al sindacato per ottenere il consenso ad un cambiamento che serve a tutti. Sarebbe un grosso errore perché significherebbe tradire l’obiettivo finale del cambiamento che è, proprio, di limitare gli automatismi e legare non solo gli stipendi individuali, ma il costo dell’intera amministrazione al valore che si riesce a restituire al cittadino pagatore.

E allora a ben vedere la mancata previsione di una cifra fissa da allocare al rinnovo dei contratti pubblici potrebbe essere un bene. Potrebbe essere un bene se ciò significa che il Governo rifiuta l’automatismo del rinnovo e si riserva di affrontare i nuovi contratti abbandonando la logica dell’aggiornamento dei costi storici per stabilire che il costo dell’amministrazione pubblica viene rivisto, ogni anno, sulla base di quali sono i bisogni e cosa le tecnologie offrono per soddisfarli. Sarebbe, invece, un male se continuasse a prevalere il punto di vista degli esperti di contabilità pubblica e ci dovessimo ritrovare, tra qualche mese, con una riforma che non ha, semplicemente, l’ossigeno per poter vivere.

Certo è vero l’amministrazione pubblica dal 2010 è totalmente pietrificata: i contratti sono congelati e gli stipendi non recuperano, neppure, l’inflazione; le assunzioni sono bloccate e ciò aumenta, praticamente, di un anno, ogni anno, l’età media del personale in servizio; i premi di produttività sono uguali per tutti e, comunque, i fondi che avrebbero dovuti finanziare gli incentivi sono finiti (500 euro lordi medi all’anno nelle amministrazioni locali); ciò, infine, rende sterile qualsiasi esercizio di valutazione, nonostante il fatto che è ormai acquisito che è la valutazione il motore vero di un’organizzazione in grado di sopravvivere adattandosicontinuamente al proprio ambiente. E, tuttavia, l’agonia dell’amministrazione pubblica non può più passare per la concessione di pannicelli caldi; va rivisto tutto ed una trattativa non dovrebbe, neanche, cominciare se la logica è quella dell’automatismo.

In effetti, a leggere il piano nazionale di riforma di altri Paesi, sembra che non tutti siano schiacciati dal paradosso che ci intrappola. Non necessariamente la riforma della pubblica amministrazione è vista come un costo nei documenti che Spagna o Inghilterra presentano alla commissione europea. Del resto, in quei Paesi non è impensabile la ristrutturazione di interi comparti che sono diventati obsoleti o l’allontanamento dei dirigenti che falliscono ripetutamente di ottenere i propri obiettivi; mentre lo è il blocco delle assunzioni che si pratica solo in Italia e che ha condannato l’amministrazione pubblica stessa all’obsolescenza. Nel resto d’Europa non è impossibile ottenere un premio; proprio perché è possibile che chi deluda finanzi con la propria tasca un incentivo al collega bravo.

Di certo, la riforma troverà il suo banco di prova più difficile e concreto proprio quando dovrà essere attuata nei contratti nuovi. Anzi quando dovrà prendere corpo attraverso la trasformazione dello stesso processo negozialedei contratti. Molto più spazio dovrà essere dato a quelli per comparto e per territorio. E, forse, anzi bisognerà progressivamente invertire la logica che fa precedere la contrattazione decentrata, centrata cioè sui bisogni e sulle organizzazioni, dalla definizione di un quadro macro economico generale che, di certo, deve definire i vincoli di finanza pubblica, ma non può dettare automatismi che rendano ancora più difficile l’introduzione di quella flessibilità di cui l’amministrazione pubblica ha assolto bisogno.

La logica manageriale e del buon senso deve, tuttavia, passare “sul corpo” di un sindacato vecchio che deve ripensare la propria natura, ma anche – ed anche questa è una contraddizione – di una dirigenza che è chiamata a gestire lo stesso cambiamento che la mette in discussione.

E, tuttavia, al cambiamento non abbiamo alternative.

Esso è indispensabile per creare una prospettiva per i lavoratori che non sono tutelati. Per i dipendenti pubblici che non si rassegnano al declino. Persino per i sindacati e per i burocrati che non possono immaginare di chiudersi in un castello di privilegi sollevando il ponte levatoio, perché quel castello si sta sgretolando e, tra un anno, sarà esaurito anche l’ossigeno di Draghi.

La questione del costo delle riforme è la contraddizione che ci ha, finora, impedito di investire in innovazione e in futuro. Riuscire a separare la questione della quantità delle risorseda quella di come gestisco quelle che sono disponibili, è essenziale per riuscire là dove si sono inceppate almeno quattro ambiziosi tentativi nati con l’idea di cambiare tutto e finiti con il non cambiare assolutamente nulla.

Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 13 Aprile

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