THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Italia 2013: una Rivoluzione in cerca di una Leadership

 

Paura e speranza.  C’è posto per entrambi i sentimenti. In Italia, fuori e dentro i Palazzi nei quali in queste ore, il Presidente della Repubblica sta cercando la mediazione più difficile della sua carriera per dare un Governo al Paese. E anche in Europa, a Londra dove ieri in una conferenza promossa dai think tank Vision e Demos, politici, giornalisti , accademici si sono interrogati su chi possa mai svegliare un’Italia e un’Europa che sembrano – entrambe, anche se per ragioni diverse – essere sprofondate da vent’anni un uno stato di coma profondo. Da dove può venire la leadership per realizzare il cambiamento che tutti ritengono indispensabile se a tutti e quattro i protagonisti – Bersani, Berlusconi, Monti e, per ultimo, Grillo – sembra mancare la forza o la volontà per assumere le scelte radicali che il cambiamento comporta?

Pessimismo della volontà e ottimismo della ragione, avrebbe detto Gramsci.

L’unica certezza che si respira a Londra è che il tempo del declino italiano, della stagnazione Europea  è – dopo vent’anni – finito. Da questo momento in poi o la crisi si avvita verso un impoverimento che finirà con il compromettere il tenore di vita di una classe media assai estesa e verso un collasso che finirà con il mettere in ginocchio l’Europa stessa; oppure troveremo il modo di rimuovere i vincoli che impediscono alla Società italiana di usare un potenziale che è significativo proprio perché ampiamente sottoutilizzato.

Scelte: per evitare la catastrofe, l’Italia non potrà più rimandare quelle decisioni che il governo Monti ha solo sfiorato e che in campagna elettorale non sono state chiamate con il loro vero nome. Scelte che richiedono un capitale politico, una capacità di mobilitazione che nessuno ha.

Non ha futuro un Paese che spende in pensioni cinque volte di più di quanto investe in educazione. Non possiamo continuare ad abbaiare alla luna dei finanziamenti europei che le Regioni del Sud non riescono a usare, se non estendiamo (prima ancora di riformarlo) l’articolo 18 all’amministrazione pubblica rendendo licenziabili i dirigenti pubblici che sprecano risorse. Non possiamo mandare in giro Presidenti del Consiglio a fare attrazione di investimenti e di tecnologie che sono indispensabili per ricominciare a crescere, senza riformare in maniera completa il Fisco che è il punto di partenza di un qualsiasi Patto tra Stato e imprese, e la Giustizia che è la base di una qualsiasi relazione di fiducia tra imprese o tra individui.

Il problema che nessuno dei governi che si sono succeduti in questi ultimi vent’anni ha risolto (visto che chiunque ha vinto una elezione ha sempre perso quelle successive) è: come faccio a rendere popolari scelte che sembrano non digeribili? Come fa il leader di un Partito Politico ad andare contro agli interessi dei segmenti elettorali che rappresenta?

L’idea che circolava nella conferenza di ieri a Londra è che l’errore più grande che – collettivamente – gli Italiani hanno fatto negli ultimi vent’anni è stato proprio quello di aspettare un Principe azzurro che risvegliasse – con un qualche miracoloso bacio – l’economia italiana dal suo lungo letargo.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno non può che essere di modifica profonda degli assetti di potere e di distribuzione delle risorse. Avrà bisogno di mobilitare un’intera categoria sociale fatta di persone che hanno competenze sottoutilizzate e che, probabilmente, nelle ultime elezioni hanno votato per il Movimento a Cinque Stelle. Servirà quella che gli storici chiamano élite capace di fare l’elaborazione di un progetto  e di coinvolgervi, persino, molti di quelli che sono privilegiati convincendoli che senza cambiamento anche i privilegi saranno presto spazzati via dalla mancanza di soldi. E potrebbe essere tra i tanti che hanno deciso di abbandonare l’Italia per studiare e lavorare tra Parigi, Londra e Bruxelles, un pezzo della classe dirigente del cambiamento.

Per riuscirci chi ha davvero talento dovrà, però, smetterla di lamentarsi, avanzare un’idea di trasformazione complessiva, pretendere di misurarsi sul piano del consenso e della democrazia , riconoscersi come gruppo, maturare una coscienza di quanto si ha in comune con altri.

La conclusione della conferenza di Londra sul futuro dell’Italia è allora stata più o meno questa: più che fare previsioni e aspettare principi azzurri, vale la pena cercare – in questo momento – di anticipare la storia mettendosi in gioco. Questo, in fin dei conti, è da sempre il senso dell’ottimismo della volontà da contrapporre al pessimismo della ragione.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Mattino del 22 Marzo

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