L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Il bosone di Lincoln

Il gran parlare che si è fatto in questi giorni a proposito del bosone di Higgs ha fatto sì che anche noi, che ben poco abbiamo capito di quanto è successo e che già piuttosto poco avevamo compreso della relatività di Einstein, ci siamo sentiti contemporanei di un avvenimento decisivo nella storia della scienza. È bello sapere che le ipotesi su cui i fisici stanno lavorando da molto tempo si sono rivelate sensate e sono state verificate in modo, per così dire, empirico. È affascinante rendersi conto che in quell’enorme anello metallico che percorre il territorio intorno a Ginevra, entrando in Francia e tornando poi in Svizzera, avvengono fenomeni che simulano momenti fondamentali per comprendere le origini e la storia del nostro universo.

Due curiose riflessioni sembrano poter riguardare anche noi che ci occupiamo di quei secoli lontani di cui cerchiamo di parlare in questo blog. La prima nasce dal fatto che in molti, in questi giorni, abbiamo compiuto il nostro atto di fede in qualcosa rispetto a cui la nostra ragione individuale ben poco ci aiuta. In sostanza siamo stati chiamati ad accettare una auctoritas o più auctoritates cui concediamo il privilegio di comunicare cose importanti, credibili, ragionevoli. Se la notizia esce dal Cern è un po’ come se, verso la fine del XIII secolo, arrivasse dalle università di Oxford o di Parigi; se si propongono come garanti Margherita Hack e Piero Angela, è un po’ come se nelle università medievali prendessero la parola i massimi rappresentanti dell’ordine domenicano, votato alla riflessione intellettuale e al progresso della conoscenza, e di quello francescano, più attento a mantenere un legame con la società circostante e con la cultura extrauniversitaria.

Con ciò non si intende in alcun modo sminuire il rilievo di quanto abbiamo letto in questi giorni, ma solo richiamare l’attenzione sul fatto che, se certi atteggiamenti ci sembrano del tutto naturali oggi, forse non andrebbero bollati come dogmatismo, oscurantismo, arretratezza culturale, quando sappiamo essersi dati in periodi lontani. Può anche essere che fra sei o sette secoli si parlerà dei nostri infantili entusiasmi per il bosone di Higgs con la stessa supponenza con cui oggi spesso si parla delle teorie “scientifiche” di sei o sette secoli fa.

La seconda riflessione si ricollega proprio a una di quelle lontane teorie scientifiche. Roberto Grossatesta (1175-1253), conosciuto anche come Roberto di Lincoln, dove divenne vescovo dopo gli studi condotti a Oxford, apre il suo trattato De luce con queste parole:

La prima forma corporea, che chiamiamo corporeità, reputo che sia la luce. La luce infatti si diffonde da se stessa in ogni direzione così che da un punto di luce subito si genera una sfera di luce …

L’universo si genera quindi in virtù di leggi sue proprie a partire da un punto di luce (lux) posto inizialmente da Dio (fiat lux) che, estendendosi in tutte le direzioni dà origine anche alla materia stessa:

La corporeità, dunque, o è la stessa luce o è ciò che compie questa operazione e conferisce le dimensioni alla materia partecipando della luce e per virtù della stessa luce. Ma è impossibile che la prima forma conferisca le dimesioni alla materia in virtù di una forma che le consegue. La luce non è dunque una forma che consegue alla corporeità, ma è la stessa corporeità (trad. it. di Cecilia Panti)

La luce originaria di cui parla Roberto non è la luce visibile della nostra esperienza, che viene definita invece lumen e compare solo in una fase successiva della storia dell’universo, e quindi si può ipotizzare si tratti di un concetto avvicinabile, con tutta la prudenza necessaria, al nostro concetto di energia. È quasi impossibile non lasciarsi trasportare dalle analogie tra una teoria di questo genere che ipotizza che la corporeità derivi dalla prima forma (energia) e le teorie del big bang o della relatività arricchite, oggi, dal bosone di Higgs.

La riflessione di Roberto di Lincoln si inserisce in una lunghissima tradizione che nasce nel platonismo, passa al neoplatonismo, per confluire nel pensiero cristiano, dove la luce fornisce una preziosa metafora per parlare di Dio stesso, e si arricchisce di raffinatezza scientifica grazie agli studi arabi di ottica.

Anche in questo caso non avrebbe alcun senso parlare della metafisica della luce come di un precorrimento di teorie scientifiche contemporanee, ma una domanda nasce comunque. Per vedere il bosone di Higgs sono state necessarie tonnellate (metaforiche) di teoria e tonnellate (non metaforiche) di metallo, di circuiti elettrici ed elettronici, di campi magnetici, di informatica. L’enorme impegno che sta alle spalle della osservazione dei giorni scorsi è sicuramente segnato da considerazioni che attribuiscono un posto del tutto particolare all’energia e alla luce stessa (come nell’equazione di Einstein). Solo grazie a quell’acceleratore si immagina di aver inividuato proprio il momento in cui quella prima forma (energia) genera la massa (corporeità) e allora ha senso la domanda: il Large Hadron Collider del Cern di Ginevra fa ancora parte della millenaria storia del neoplatonismo occidentale?

  1. Certamente mercoledì 4 luglio 2012 sarà ricordato come una data fondamentale in ogni buon manuale di storia della scienza. Almeno è questa l’impressione che il lettore può farsi avendo sott’occhio la considerevole mole di articoli sulle testate di giovedì. “Catturata la particella di Dio”, “Una caccia durata mezzo secolo: la particella di Dio esiste ora l’universo ha meno segreti”, “Caccia finita: scovato il bosone di Higgs”. Scongiurata l’ineleganza giornalistica dell’espressione «particella di Dio», come ben fa sul Domenicale (di ieri 8/7) il fisico Carlo Rovelli (ma si sa l’argent, toujours l’argent…), si possono fare alcune considerazioni. Personalmente, una volta appresa per radio la notizia, la prima immagine che mi è balenata in mente è stata quella della prosperosa signora Ph(i)Nko della magnifica cosmicomica “Tutto in un punto”, quella che il genio di Calvino immaginava, «con le braccia unte e generose infarinate», esclamare: «Ragazzi, avessi un po’ di spazio, come mi piacerebbe farvi le tagliatelle!»; quella alla quale si dovrebbe, attraverso il pensiero degli ipotetici commensali, l’inarrestabile formazione ed espansione dello spazio, del tempo e della materia. La burrosa e un po’ emiliana donna che si sarebbe poi dissolta in «non so quale specie d’energia luce calore». È fuor di dubbio che ogni uomo di scienza apprezza tanto delle ottime tagliatelle al ragù (magari ‘innaffiate’ con un rosso ad hoc) quanto una bella donna indaffarata con uova e farina… ma non è certamente di questo che vorrei dire! Sorvolando – non potrei fare altrimenti! – sulle profonde suggestioni filosofiche che la teoria, o meglio le teorie, del big bang evocano, su antiparticelle e quark, come sulla cosiddetta “teoria standard” che è stata detta «la più ampia, articolata e comprovata teoria della materia che mai l’umanità abbia visto» (R. Maiocchi), si tratta di mettere a fuoco il ‘fatto’ che esista una particella, la particella di Higgs, che entro un campo di forze (campo di Higgs), faccia sì, interagendo, che altre particelle (es. fotoni) siano come ‘frenate’ e che «si comportino infine come se avessero una massa» (Rovelli). A chiunque si interessi di filosofia non sfugge indubbiamente, al di là dei tecnicismi, il significato profondo di ciò che le signore e i signori del Cern ci hanno riferito: attraverso l’interazione del bosone di Higgs, come di altri bosoni, la materia ha una massa, vale a dire la materia è ciò che intendiamo comunemente con l’espressione “materia”. Un passo in più verso l’ordito segreto dell’universo – che rimane comunque ben lontano e abyssus multa! Platone nel Timeo 52 D – 53 B afferma che in origine, prima dell’intervento del Demiurgo, il principio materiale si presentava come un fascio di forze «non somiglianti fra loro né ordinate», caotiche e oscillanti irregolarmente. «Le cose mosse, poi, venivano trasportate alcune da una parte altre dall’altra, separandosi, così come nella pulitura del frumento, quando (…) le parti dense e gravi si raccolgono da una parte, e le rare e leggere si collocano da un’altra parte» (tr. Reale). Platone aveva sicuramente presente il pensiero di alcuni presocratici, ad esempio Empedocle e Anassagora, ma è stato forse il primo a porre chiaramente il problema dell’origine della materia e della sua “in-formazione”. Visto che abbiamo chiamato in causa Platone, mi piace riportare quanto afferma dalle colonne del Corriere Giovanni Reale (in un articolo peraltro non del tutto condivisibile…): «Molte dottrine cosmologiche son in realtà forme di metafisica, trasfigurate e rivestite di simboli assai allettanti ma in realtà assai fragili». Il riferimento alla metafisica è prezioso, se è vero, infatti, che «la scoperta della particella di Higgs chiude la fisica del XX secolo» (intervista al fisico Ugo Amaldi su Avvenire), d’altra parte consente – come in realtà tutta la cosmologia contemporanea – al filosofo di sviluppare, riprendere, ampliare alcune considerazioni della tradizione metafisica dell’Occidente. Il problema, ancora aperto dopo più di due millenni, e affrontato certamente (per fortuna!) secondo prospettive e con apparecchiature differenti è quello di ‘comprendere’ come – e aggiungerei perché – all’Inizio particelle con carica elettrica ma senza massa hanno potuto acquisirla permettendo lo sviluppo del κόσμος. Il professor Brian Greene della Columbia University (che a quanto ho capito non è l’ultimo arrivato…) dalle colonne di Repubblica ha offerto alcuni spunti di grande interesse anche per il filosofo; anzi direi che ha parlato più il linguaggio della filosofia di quanto non abbia parlato quello della fisica teorica. «La teoria includeva un’ipotesi (…) sul modo in cui le particelle fondamentali acquisiscono massa. Semplificando, la massa di una particella è la resistenza che incontri se spingi contro di essa. La domanda è da dove viene questa resistenza? La risposta, secondo la teoria di Higgs, è che tutto lo spazio è pieno di una sostanza invisibile – il campo di Higgs» e poco sotto «Higgs ha proposto [nel linguaggio matematico] di riscrivere la definizione stessa di nulla, riempiendo lo spazio vuoto con una sostanza capace di conferire alle particelle la loro massa». L’invisibile spiega il visibile. Di più, l’invisibile spiega ciò che oggi è tecnologicamente constatabile. Vi sono forse analogie con la processione del sensibile dall’intelligibile, in Plotino (Enneadi I, 8, 7; III, 4, 15) e nel neoplatonismo in generale. Anche la patristica, in particolar modo attraverso tutta la letteratura sui «sei giorni» della Creazione ha cercato, attraverso l’esegesi, di penetrare il testo della Genesi. Ma oltre Platone, oltre Plotino e la patristica si sono probabilmente spinti i maestri di Chartres nel XII secolo nel loro tentativo di esporre e commentare secundum physicam la Genesi. Bernardo, riprendendo le pagine del Timeo, introduce tra la materia e le idee le cosiddette formae nativae che permettono di fatto di passare dalla potenzialità alla concretezza delle cose, alla materia. La riflessione di Bernardo è stata ripresa e corroborata dal fratello Teodorico, egli intende la materia, alla maniera di Pitagora, come derivata dall’unità e affronta in maniera assai precisa uno dei grandi problemi metafisici (con cui ogni platonismo, da sempre, ha dovuto ‘fare i conti’): il rapporto Uno – molteplice. Uno dei più vertiginosi concetti teologico-metafisici, quello di creazione, veicolato dalle tre grandi religioni rivelate, ha in realtà permesso storicamente di risolvere alcuni punti di questo intricato problema. Teodorico ha ben visto le grandi difficoltà insite nel tentativo di accordare il testo sacro con la physica, si legga pure il Timeo nel commento di Calcidio, e ha offerto una notevole spiegazione di tipo meccanicistico; infatti se Mosè ha affermato che Dio ha creato il cielo e la terra bisogna certamente intendere «nel senso che egli ha creato delle particelle mobili il cui movimento causava il centro fermo di cui esse avevano bisogno per muoversi» (Gilson). Nessuno intende suggerire precorrimenti che sarebbero tanto ingannevoli quanto anacronistici, ma non ci si può certo esimere dalla riflessione che recentissimi risultati scientifici e la stessa storia della filosofia (anche medievale) suggeriscono. Se la metafisica – l’ontologia per chi preferisce – avesse ancora qualcosa da dire essa dovrebbe interessarsi ai risultati della scientia contemporanea e tenerli presenti, pur muovendosi su altri piani e in altre direzioni. Se la domanda alla quale pare si sia data una risposta, «Come e quando l’energia diventa materia?», è in qualche modo assimilabile, accostabile, all’altra, «Come e quando il pensiero, l’idea, la forma, lo spirito diventano materia e come la informano?», allora sì, quanto accaduto a Ginevra è tranquillamente ascrivibile alla storia del platonismo occidentale. Personalmente non so decidere fra le tagliatelle dell’abbondante signora Ph(i)Nko e il versetto «In principio creavit Deus caelum et terram», anche perché probabilmente (per fortuna!) le une non escludono l’altro!

  2. Bello questo blog! Fa bene essere scossi nelle proprie certezze (ogni tanto). Un’osservazione. L’appello all’autorità, nel caso degli esperti del CERN non consiste nel dire: è vero perchè l’hanno detto loro. Consiste invece nel dire: è (ragionevole supporre che sia) vero perché gli esperti del CERN hanno trovato dei dati, in linea di principio confermabili da altri studiosi che vogliono ripetere l’esperimento, che, all’interno di un certo quadro teorico per cui esiste evidenza empirica, supportano la conclusione che sia vero. Insomma, semplificando un po’, i medievali, quando si appellavano all’autorità, dicevano: è vero perché lo dice Aristotele. Noi no. O no?

    • Assolutamente d’accordo con la prima differenza segnalata da Sandro riguardante la individuazione dei dati e la ripetibilità dell’esperimento. In disaccordo invece con il modo in cui viene presentato l’atteggiamento dei medievali nei confronti della auctoritas. Basti pensare che le autorità, riconosciute come tali sono spesso in contrasto tra loro: i grandi filosofi antichi, i contenuti della rivelazione, i padri della chiesa, gli autori ritenuti riferimenti essenziali per le arti liberali. In quei famosi mille anni sono avvenuti processi che hanno cambiato tutto e anche la interpretazione dell’autorevolezza dei soggetti ricordati. Anche se naturalmente la grande tradizione storiografica neoscolastica non sarebbe d’accordo, personalmente ritengo che persino il cristianesimo (neoplatonico) di Agostino sia del tutto diverso dal cristianesimo (aristotelico) di Tommaso d’Aquino.
      Quello che soprattutto colpisce è che gli autori medievali, pur nei loro modi complessi di esprimersi, tutto questo sembrano saperlo benissimo: Pier Lombardo, parlando di questioni teologiche, in diverse occasioni cita Agostino a favore di una tesi e anche di quella contraria; Abelardo intitola “Sic et non” una sua opera in cui confronta opinioni contrastanti tratte dai padri della chiesa; Alano di Lilla, in termini che difficilmente potrebbero essere più espliciti, afferma: “Auctoritas cereum habet nasum, id est in diversum potest flecti sensum” (Contra haereticos libri quatuor 1.30).

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