CROCE E DELIZIE

Corrado Ocone

Filosofo

“Felicità vo cercando…”. Alcune riflessioni filosofiche su un’idea divenuta moda

Il tema della felicità è gettonatissimo nella mid cult filosofica che ci avvolge o sommerge. E’ il tema di festival, libri, interventi dei filosofi che vanno per la maggiore. Ed è forse anche un segno dell’ambiente culturale in cui viviamo: è vero infatti che la felicità è stata fatta sempre oggetto di attenzione, ma solo ora mi sembra che discuterne sia diventato quasi una moda. E’ vero che sono in pochi, i più sprovveduti, a cercare e non per gioco le “10 massime della felicità”, come recitava il titolo di un volume pubblicato qualche tempo fa. Tuttavia è anche vero che, sottinteso al consumo (pseudo) culturale di felicità, c’è un’esigenza di senso da dare alla propria esistenza e di risposta alle proprie inquietudini. Si chiede al filosofo un “orientamento nella vita” che in verità nessuno può darci. Così come nessuno può regalarci a priori quegli attimi di felicità che pure talvolta riconosciamo nella nostra vita. Va detto che, per lo più, i suddetti filosofi ed editori, pur assecondando la richiesta del “mercato”, diciamo così, non cadono in facili banalizzazioni. E questo va sicuramente a loro (parziale) merito e onore. Può anzi capitare che vengano addirittura proposti al pubblico italiano testi di indubbio valore, come per esempio i due recentissimi di al-Farabi (La via della felicità) e Robert Mishrai (La felicità. Saggio sulla gioia), pubblicati rispettivamente dagli editori Castelvecchi e Elliot. Resta tuttavia inespresso il limite di ogni discorso filosofico sulla felicità, che concerne l’impossibilità di darne un contenuto concreto o una definizione. Mai come in questo caso, infatti, il limite del pensiero empirico viene fuori in tutta evidenza. E non si tratta solo del fatto, pur vero, che ciò che rende felici noi in questo momento può non rendere felici altri o noi stessi in un altro momento della nostra vita (il che si esprime solitamente facendo riferimento ad una cosiddetta o presunta “relatività dei valori”). Si tratta, più radicalmente, del fatto che la felicità, per quanti sforzi si faccia, non la si afferra mai. Essa esiste certamente come stato d’animo, e a posteriori siamo anche in grado di riconoscerla, ma è impossibile de-finirla, cioè fissarla. E’ un sentimento in-finito, anche nel senso che ci avvolge e ci prende completamente, quando la viviamo. In quanto infinita, essa non è programmabile. Né sono definibili a priori fatti o accadimenti che la favoriscano o la ostacolino. Gli è che, come le altre affezioni o gli altri sentimenti o stati d’animo, i positivi come i negativi, la felicità non è ma si fa, non vive come un dato ma in un rapporto, non è un’acquisizione ma una tensione. Essa sembra non essere in nostro potere, e in un certo senso non lo è, ma non perché noi non facciamo le scelte giuste o per altri elementi esterni. Essa non è in nostro potere perché non la possediamo, ma ci possiede. Anzi, quando più sforzi facciamo per possederla, tanto più essa ci sfugge e, sfuggendoci, ci rede infelici. John Stuart Mill, che pure  è un pensatore per tanti versi poco aduso alla filosofia speculativa, intuì questa profonda verità: proprio nel suo notissimo saggio sulla libertà scrisse queste forti parole: “Chiedetevi se siete felici, e cesserete di esserlo”. Eppure, la stessa infelicità non può essere, non è, mai assoluta. Ed essa non sarebbe, come negatività o disvalore, se non esistesse il lato positivo, o meglio la relazione che la tiene avvinta ad esso. Tanto che può dirsi che, a rigore di termini, nessuno è mai completamente infelice. Così come nessuno è mai del tutto e definitivamente felice. Se un suggerimento può darsi, allora, è forse quello che invita, se stessi e gli altri, a costruirsi vite piene e umane, non monodirezionali ma aperte al nuovo e al plurale. Il resto poi verrà da solo. Una cosa però la si può dire con certezza. Discutere così tanto di felicità è il segno non certo della decadenza della nostra epoca, a cui chi scrive non crede affatto, ma sicuramente della pochezze di certe menti che in essa fanno clamore e pretenderebbero persino di generare opinione.

  1. Jorge Luis Borges, “Qualcuno”, in “L’altro, lo stesso”

    Un uomo modellato dal tempo,
    un uomo che non aspetta neppure la morte
    (le prove concernenti la morte son mere statistiche
    e non c’è alcuno che non corra il rischio
    d’essere il primo immortale),
    un uomo che ha imparato ad esser grato
    per le modeste elemosine dei giorni:
    il sonno, il ritmo dell’abitudine, il sapore dell’acqua,
    un’insospettata etimologia,
    un verso latino o sassone,
    la memoria d’una donna che l’ha abbandonato
    ormai da tanti anni
    che oggi può ricordarla senza amarezza,
    un uomo che sa bene che il presente
    è già futuro e oblio,
    un uomo che è stato sleale
    e col quale son stati sleali
    a un tratto può sentire, mentre va per la via,
    una misteriosa felicità
    che non proviene dalla speranza
    ma da un’antica innocenza,
    dall’intima radice o da un dio sperso.
    Sa che non deve guardarla da vicino
    perché ragioni più tremende di tigri
    gli mostreranno che ha l’obbligo
    d’essere sventurato:
    riceve tuttavia con umiltà
    la raffica felice.
    Morti, forse saremo per sempre,
    quando la polvere sarà tornata polvere,
    l’indecifrabile radice
    dalla quale l’anima sempre crescerà,
    sia equanime sia atroce
    Il nostro solitario cielo o inferno.

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