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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Contingenza, creatività, auto-trascendenza: religione e secolarizzazione in Hans Joas

Libri

L’Editoriale di Paolo Costa al volume pubblicato da Rubettino La fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo (2013) descrive Hans Joas come un outsider: tedesco imbevuto di pragmatismo americano, vicino al marxismo e alla scuola di Francoforte (a Axel Honneth in particolare) senza mai farne parte, cattolico conciliare e in dialogo con i non credenti. In realtà, benché i tratti sottolineati da Costa siano senza meno reali e aiutino a comprendere l’originalità di Joas, si tratta di una figura ben riconosciuta e assai autorevole nel panorama socio-filosofico contemporaneo. L’opera appena citata  (La fede come opzione) ci aiuta ad arricchire la nostra comprensione del suo pensiero in tema di religione e secolarizzazione, già noto al lettore italiano mediante titoli come Abbiamo bisogno della religione? (Rubettino 2010) e Persona e diritti umani. Princìpi, istituzioni e pratiche di vita (Ed. Meudon 2011).

La riflessione di Joas prende le mosse dai requisiti minimi necessari al dialogo tra credenti e non credenti, per poi aprirsi ad una personale definizione di religione, ad una analisi della secolarizzazione e interpretazione di alcuni temi particolarmente significativi nel rapporto tra religioni e società contemporanee. Il primo requisito è a carico, per così dire, dei non credenti, e consiste nel rivedere la acritica equivalenza tra modernizzazione e secolarizzazione, data fino a un recente passato talmente per scontata da far ritenere che chi oggi dovesse ancora credere sarebbe ‘intellettualmente disonesto’. L’egemonia, sostiene Joas, si è oramai spostata a favore di quanti non prendono più quel nesso per scontato, o meglio guardano alla secolarizzazione nella sua multiformità, o meglio ancora guardano alle forme multiple che può assumere e la modernità e la secolarizzazione, avendo imparato a riconoscere nell’Europa secolarizzata una eccezione, peraltro estremamente essa stessa plurale al suo interno. Il secondo requisito è invece a carico dei credenti, e consiste nella revisione critica  del pregiudizio secondo cui senza base religiosa non possa darsi morale, cosicché la secolarizzazione – laddove si dà – porta necessariamente con sé corruzione morale, tanto per i singoli individui quanto per le identità collettive. La risposta più forte a questo pregiudizio viene, secondo Joas, proprio dalle scienze sociali, le quali mostrano come sia a livello ontogenetico sia a livello filogenetico le regole morali fondamentali (per esempio la correttezza nel gioco) emergano dalla cooperazione sociale, e che la reciprocità è una fonte della morale autonoma dalla religione o da altre autorità educative, sicché non può essere corrosa dai processi di secolarizzazione.

Sgombrato il campo da questi pregiudizi, il discorso intorno alla secolarizzazione può essere più utilmente impostato in termini non ideologici, ma empirici e storici. A partire da un approccio di questo genere, la secolarizzazione si presenta all’analisi di Joas come un fenomeno verificatosi, laddove si è verificato, a ‘ondate’: la prima ebbe inizio in Francia, tra il 1791 e il 1803; la seconda – meno circoscrivibile temporalmente – ha a che fare con gli effetti dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione nel XIX secolo; la terza ondata riguarda gli anni 1969-1973, ossia gli anni della ‘rivoluzione espressiva’, tanto bene messa a fuoco dalla sociologia americana di Parsons e di Bellah. Quel che Joas sottolinea con forza, è che la direzione presa in ciascuna ondata dai processi di secolarizzazione nei diversi contesti è dipesa da fattori contingenti: l’escalation anti-religiosa che la modernizzazione ha assunto in Francia non si è data in paesi egualmente cattolici come la Spagna, il Portogallo o l’Italia; l’industrializzazione non ha fatto segnare ovunque processi inarrestabili di erosione delle basi religiose della società, come mostrano i casi alternativi della Ruhr e della Renania, in cui il movimento dei lavoratori si salda ad una chiesa vitale e vivace; la rivoluzione espressiva poteva articolarsi in modo religioso, areligioso o antri religioso a seconda della reazione delle chiese e dei raggruppamenti religiosi, che è stata infatti molto diversa a seconda di tradizioni e luoghi. Il nesso tra secolarizzazione e modernizzazione, in altri termini, è stato tutt’altro che logicamente necessario, ma piuttosto nel segno della contingenza, con l’unica eccezione, forse, di quei contesti in cui più forte è stata l’influenza del protestantesimo – senza però che si possano oscurare le forme di modernizzazione e individualizzazione interne anche al cattolicesimo.

Contingenza è parola chiave, nel lessico di Joas, anche ai fini di una bilanciata diagnosi del tempo. Critico nei confronti e di quelle che chiama diagnosi ‘monotematiche’ (la riconduzione della modernità contemporanea ad un unico tratto saliente – società del rischio, della gratificazione istantanea, della comunicazione etc.), e di quelle che vedono la rottura radicale tra il presente e l’epoca che lo ha preceduto (tipicamente, la postmodernità), Joas propone di mettere al centro della diagnosi del presente appunto la categoria della contingenza, ossia l’aumento delle opzioni di azione da parte degli individui, e delle occasioni della nostra vita che conseguono alla diffusione di tali possibilità individuali di azione (p. 142). Gli esiti di una simile moltiplicazione di possibilità di azione (la scelta insomma come categoria centrale della modernità) possono essere ancora una volta i più vari, dalla possibilità di disegnare traiettorie di vita autentiche alla restrizione, paradossalmente, delle possibilità effettive di azione individuale (l’esempio del traffico nei grandi centri urbani è quanto mai calzante). Dal punto di vista della vita religiosa, una simile centralità della contingenza e dell’aumento delle opzioni si traduce – potenzialmente – in una fede matura, ‘più forte perché ha potuto prendere in considerazione l’alternativa’ (p. 171), tra fedi diverse o anche tra fede e vita secolare (la fede, appunto, come opzione). La fede, insiste Joas, non è una tecnica per il superamento della contingenza, ma il ‘presupposto di un modo specifico di fare i conti con la contingenza’ (p. 148). Qual è questo modo specifico? Cosa caratterizza la fede religiosa? Questo è il punto dell’analisi di La fede come opzione che si ricollega maggiormente a Abbiamo bisogno della religione? Per Joas, le religioni non devono essere viste come sistemi di valori, né come sistemi dottrinali, ma in primo luogo come tentativi di interpretazione delle esperienze umane. Richiamandosi al James di Le varie forme dell’esperienza religiosa (e trascurando un po’ il Durkheim delle Forme elementari della vita religiosa), Joas fa dell’esperienza la dimensione centrale della vita religiosa. Una esperienza, in particolare, ossia quella di autotrascendenza, superamento da parte del Sé dei suoi propri confini e limiti, possibile anche nella sfera puramente secolare in quanto radicata esigenza antropologica (nell’amore, nella comunione con una comunità), ma che in quella religiosa si tinge dei colori dell’incontro con una trascendenza forte, con una divinità ultramondana. Nell’immaginario pragmatista e modernista di Joas, è proprio questa apertura all’oltre da sé a rendere possibile, in modo si direbbe ovviamente sempre contingente e non logicamente necessario, la creatività dei soggetti, la possibilità di generare nuovi valori, innescare dinamiche di mutamento. L’esperienza dell’autotrascendenza è una modalità di gestione della contingenza perché apre l’individuo alla sperimentazione e alla creatività, anziché chiuderlo entro confini del Sé irrigiditi. Quando a questa esperienza si unisce, come sarebbe nella logica dell’autotrascendenza, la consapevolezza che la propria pratica di superamento del Sé non può mai essere completa e totale, così da esaurire le possibili forme di autotrascendimento, allora quello che ne consegue è una naturale tolleranza, se non incline apertura alle esperienze di autotrascendenza altrui, alle pratiche per esempio rituali di altre tradizioni, e comunque alle esperienze religiose diverse dalla propria. Su questa pietra – dura perché ha la consistenza di un tratto antropologico – si fonda anche la possibilità del dialogo interreligioso: senza sacrificio dei propri particolarismi, accettando di buon cuore le differenze iniziali, ma aprendosi naturalmente alla comune esigenza di oltre-passamento del Sé. Ciononostante, la visione di Joas è lungi dall’essere irenica, e guarda invece in faccia il nesso sempre possibile tra sacro e violenza. Quel che nega, è che il nesso sia sempre necessario. Accordando una certa superiorità evolutiva alle religioni post-assiali – quelle cioè che muovono dall’idea di un dio trascendente –, Joas vede nelle religioni un potenziale pacificatore di conflitti allorquando si rendano co-attori di un processo di sacralizzazione della persona (si veda, in proposito, l’interessantissimo Persona e diritti umani. Princìpi, istituzioni e pratiche di vita (Ed. Meudon 2011), allorquando non si facciano strumentalizzare politicamente e, al contrario, tengano fermo al potenziale di critica del mondo implicito nell’idea stessa della trascendenza.

Il libro di Joas, i libri di Joas, sono ricchi di spunti di grande interesse e idee condivisibili. La centralità della dimensione dell’esperienza nell’analisi dei fenomeni religiosi, di contro a frequenti, pregiudiziali e cristiano-centriche enfatizzazioni della dimensione cognitiva e teologica; quella della dimensione dell’autotrascendenza, e l’attenzione all’analisi dei processi di sacralizzazione (più evidente in Persona e diritti umani. Princìpi, istituzioni e pratiche di vita): si tratta di spunti e idee finemente elaborate che fanno di Joas un protagonista delle riflessioni contemporanee sulla religione. Le sue analisi della secolarizzazione, inoltre, sono una lezione di accuratezza storica, interiorizzazione della lezione di un David Martin, lucida auto-censura di fronte al rischio della generalizzazione, sapiente equilibrio tra analisi empirica e interpretazione teorica. Tuttavia, questi spunti vengono declinati per lo più in senso modernista, in una versione in cui echeggia sempre il timbro della rivoluzione espressiva, della inaggirabilità della scelta, della forza creativa del soggetto, insomma di un certo modernismo religioso. Che ne è, nell’analisi di Joas, di quelle che Slavica Jakelic chiama ‘collectivistic religions’ in cui la fede non è scelta ma qualcosa in cui ‘si nasce’? Che ne è della concretezza delle pratiche rituali di specifiche tradizioni (che Joas non considera mai nella loro specificità), in cui il fedele potrà sì fare esperienza di autotrascendenza, ma non come via all’apertura verso il superamento di qualsiasi confine, ma solo di quelli che separano il Sé dalla propria comunità? Che ne è della riflessività potenzialmente sempre insita nel momento rituale, anche all’interno delle religioni pre-assiali? Attento alle forme di globalizzazione del cristianesimo, come anche a quelle di ‘religiosità liberamente vagante’ della spiritualità individualistica (psicoculti della New Age, occultismo, neopagnesimo etc.), Joas sembra sempre come sbilanciato verso le espressioni di individualizzazione dell’esperienza religiosa, come se la riflessività dell’autotrascendenza fosse questione solo moderna e legata all’individuo, e come se la vita religiosa fosse sempre un attraversare senza sosta confini e limiti e non anche, alle volte, un sostare nel dato per scontato di una lebenswelt già data. In altri termini, il limite dell’analisi di Joas – che nell’insieme arricchisce non poco la nostra comprensione di quel che chiamiamo ‘religione’ – sta forse in quello che Simmel indicava come l’‘errore del separare’ ciò che nella concretezza della vita, e quindi dell’esperienza religiosa, è invece unito, e solo analiticamente separabile: individuo e comunità, riflessività e dato per scontato, autotrascendenza e chiusura al mondo, mutamento e tradizione. I fenomeni religiosi hanno una loro unitarietà che le categorie moderne di analisi tendono invece a ridurre a definizioni ‘monotematiche’, non a caso sovente particolarmente in sintonia con la sensibilità modernista, come appunto quelle di autotrascendenza, creatività e contingenza.

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