LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Cinema pro Memoria / 2 – Donne senza nome nella casa rossa

Nel film si chiamano Tania, Louisa, Ortega, Hilda, Janka, Anna, Yvonne… Si aggirano, sconfitte ma fiere, in un campo profughi dopo la seconda guerra mondiale: un internamento, il loro, che ha i contorni dell’attesa e del disincanto, se non della disperazione mitigata talora dalla chimera di una fuga. Sono giovani donne esuli, transfughe, reiette dell’Europa in rovina materiale e in degrado morale. Quando la macchina da presa si leva di qualche metro da terra, si scorgono i trulli di Alberobello e la campagna pugliese, nel bianco e nero della vecchia pellicola custodita a Torino nell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza.

Il film è del 1949 e s’intitola Donne senza nome, oppure Le indesiderabili. Lo diresse il regista ungherese Géza von Radványi, anche sceneggiatore insieme con lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, con Liana Ferri e Fausto Tozzi che all’epoca lavorava come stenografo per Sergio Amidei, grande autore e sodale di Rossellini. Il cast non è da poco, allineando in ruoli da protagonisti un giovane e aitante Gino Cervi in divisa da brigadiere e una struggente Valentina Cortese nei panni della fuggitiva jugoslava Anna Petrov. Con loro, ci sono Mario Ferrari, Simone Simon, Vivi Gioi, Anna Maestri, Pietro Sharoff (fondatore della compagnia dell’Eliseo e maestro di Foà e Valli), Umberto Spadaro, Françoise Rosay, lo stesso Tozzi che avrebbe poi avuto più fortuna da attore che come scrittore. Le musiche sono di Roman Vlad e le scenografie di Dario Cecchi e Mario Garbuglia: nomi destinati a diventare famosi nel cinema italiano.

Géza von Radványi (1907-1986), fu un autore cosmopolita e dagli esiti alterni, ed è ricordato soprattutto per il suo È accaduto in Europa girato nel 1947 e per una successiva versione della Capanna dello zio Tom, nonché per la sua collaborazione con il grande teorico del cinema Béla Balázs. Negli anni scorsi, si è riparlato di lui perché era il fratello di Sandor Marai, l’autore magiaro emigrato negli Usa che le edizioni Adelphi hanno rilanciato a partire dal successo di Le braci). Insomma, l’interesse di Donne senza nome è cinematografico tout court, oltre che storico, quale documento dell’ex campo di concentramento fra i trulli chiamato la «Casa rossa». È l’ex masseria e scuola agraria Gigante, dov’erano già stati internati ebrei di diversa nazionalità, slavi e antifascisti dal 1940 al ’43, e, quindi, dal gennaio 1947 al novembre ’49 prima donne straniere rastrellate in Italia e poi famiglie di profughi mitteleuropei, tra cui alcuni nuclei ebrei. Vicende alle quali si fa cenno nel film, allorché una delle donne parla degli «ospiti» che si sono succeduti nel tempo in quelle baracche (gli interni furono però girati a Cinecittà).

La trama si snoda intorno ad Anna Petrov, il cui marito viene ucciso da mano ignota e per motivi politici sul molo di Trieste. Il suo arrivo ad Alberobello insieme alle altre sventurate prive di documenti è il prologo del film. Ma Anna è incinta e comincia a meditare sulla possibilità di fuggire. I suoi tentativi falliranno nonostante la solidarietà femminile e porteranno a un tragico parto in cattività, mentre le detenute allestiscono uno spettacolo, un po’ come nella scena clou della Grande illusione di Jean Renoir (1937). Il bimbo viene riconosciuto e adottato all’istante dal brigadiere Gino Cervi che per questo deve lasciare l’Arma: «Mi comprerò una capra», dice al suo capitano. Trattato con sufficienza all’uscita nel 1950 (fu proiettato persino negli Usa), Donne senza nome è invece un film di valore, dovizioso di dialoghi «brechtiani» sulle conseguenze della guerra, tipo: «Chi ha perduto la guerra, tu o io?» – «L’abbiamo perduta tutti, no?». Conseguenze che includono la terribile punizione inflitta dalle donne a una nazista (Gina Falckenberg) riconosciuta e processata in una Norimberga in sedicesimo.

Sono donne straniere ovunque, che magari inseguono il sogno di un passaporto falso da acquistare a Bari da un trafficante cinese, o che vanno a nozze col gelataio albanese del campo pur di uscirne. Tutto, per evadere e superare finalmente il lascito della guerra «voluta dagli uomini». Un film pacifista e, a suo modo, «femminista» ante litteram, non privo di qualche allusione saffica. Fino al culmine drammaturgico del coro che intona «Funiculì Funiculà» con accenti dell’Europa orientale per coprire il pianto del neonato. Un vagito di libertà fra i trulli, nella masseria donde qualcuno era stato deportato verso la Shoah.

 

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