DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

L’attentato di Tunisi
che non va in prima pagina

I terroristi tunisini, il 24 novembre, facendo seguito ai due attentati contro turisti stranieri di quest’anno, hanno colpito in pieno centro della capitale, uccidendo dodici soldati delle forze dell’ordine e della sicurezza. Hanno solo sbagliato, senza volerlo, dal punto di vista mediatico: Parigi, e l’aereo russo abbattuto dai turchi proprio lo stesso giorno in cui avveniva l’attentato a Tunisi, hanno infatti spinto in quarta o quinta fila la notizia. Con il che si dimostra quanto sia poco importante, per tanti organi d’informazione, quanto sta avvenendo in paesi “altri”, quando le notizie riguardano situazioni “lontane”, almeno a prima vista. Comunque un primo successo l’hanno ottenuto: la dichiarazione dello Stato di Emergenza.

Occorre dunque informare, e ragionare, su quanto sta accadendo nel paese arabo più vicino alle nostre coste. Qui non siamo di fronte all’ennesimo episodio dell’interminabile conflitto tra sunniti e sciiti, per la semplice ragione che in Tunisia gli abitanti sono tutti sunniti. E allora, come si spiega l’attentato tunisino? La risposta sembra chiara, quasi ovvia: i terroristi tunisini (che sono tanti, come dimostra il fatto che la Tunisia è al primo posto nella graduatoria dei paesi fornitori di foreign fighters) cercano di affossare il progetto politico dell’unico paese arabo che sta cercando di salvare la transizione democratica avviata con la rivoluzione del 2010-11 grazie al consenso maggioritario delle forze sia laiche che religiose del paese, cercando così di evitare la risposta autoritaria di tipo egiziano.

Ma c’è di più su cui occorre riflettere. Quali sono le radici, le “motivazioni” di fondo del terrorismo tunisino, visto che non si tratta di tensioni religiose, e neanche territoriali, come in Siria e in Iraq, almeno a prima vista? Intanto è importante segnalare un dato cruciale: il radicalismo islamista tunisino si è consolidato e diffuso in modo particolare nelle regioni più povere, quelle tradizionalmente emarginate del centro sud. Qui la disoccupazione è l’altra faccia di un modello di sviluppo che ha, fin dall’epoca coloniale francese, favorito la capitale e le zone costiere del paese. Un modello di sviluppo che nessuno, neanche le attuali forze democratiche al potere, hanno tentato fin ora di mettere seriamente in discussione. Tra le tante distorsioni provocate da questo modello di sviluppo, va segnalata l’alta percentuale di giovani diplomati e laureati che dopo anni di grandi sacrifici familiari hanno di fronte a se come unica prospettiva la disoccupazione e la miseria. Sono centinaia di migliaia di persone alcune delle quali, in mancanza di alternative, finiscono per essere attratte dal fondamentalismo islamista che garantisce, grazie anche ai cospicui fondi che giungono in Tunisia da alcuni paesi ricchi del Golfo, un salario per i terroristi e aiuti economici alle loro famiglie. Come mi ha spiegato il Professore tunisino Mohammed Haddad in un recente colloquio in occasione di un seminario organizzato a Roma dall’Università LUISS e dalla associazione Reset-Dialogues, “mentre il disoccupato analfabeta viene facilmente attratto dalle attività illegali, ad esempio il traffico della droga o la tipica delinquenza comune, il disoccupato diplomato, e quello laureato in particolare, può essere facilmente attratto dal salario offerto dai gruppi jihadisti che oltre tutto si coniuga con una proposta d’identità forte”. Qui, forse, risiede il rischio maggiore della transizione democratica tunisina. Povertà e mancanza di prospettive da un lato, violenza politica dall’altro, alimentano una spirale contraria all’esperimento democratico che giustamente ha meritato il Nobel per la Pace.

Sono dunque soprattutto sociali ed economiche, e non religiose, la ragioni che spingono tanti arabi, ivi compresi i tunisini, a fare propria la scorciatoia dell’attacco ai “valori” dell’Occidente. Si tratta di un fenomeno su cui, forse, l’Occidente non riflette ancora abbastanza. Interpretare il Corano è utile, chiudere gli occhi di fronte ai fenomeni di fondo delle società arabe e musulmane è pernicioso. Il tema religioso, semmai, va collegato alla eterna esigenza della protesta e della violenza sociale di invocare, prima o poi, una dimensione ideologica che nel mondo arabo e musulmano in genere, data la crisi storica della sinistra rivoluzionaria, solo una certa interpretazione mistico-religiosa sembra in questa fase, in grado di proporre.

La fragilità del processo democratico in Tunisia richiama, in definitiva, l’esigenza di un ruolo forte da parte della vicina Europa. E anche qui si pone un problema: la responsabilità della Unione Europea nei riguardi della piccola e vicina Tunisia è davvero grande. La democrazia tunisina ha bisogno urgente di misure economiche in grado di attenuare la tensione sociale e avviare a soluzione il nodo delle disuguaglianze sociali e territoriali. Questo obiettivo dovrebbe illuminare l’approccio strategico del “buon vicinato” tra l’Unione europea e il paese che ha fin ora sconfitto politicamente la minaccia dell’estremismo interno ed esterno.

D’altra parte non ci sono alternative a uno sforzo congiunto: la sconfitta della democrazia tunisina sarebbe catastrofica per l’evoluzione del mondo arabo ma anche per l’immagine e la percezione del vecchio continente nell’altra sponda del Mediterraneo.

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