L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Amarcord

A un certo punto della vita ci si rende conto di poter dire senza vergogna di avere capito assai poco di come è fatto e come va il mondo, di quali siano le regole – e se esistano effettivamente – cui è opportuno attenersi, di non sapere assolutamente se questo cammino faticoso che ci tocca compiere abbia una direzione, un senso, o sia dominato da quella che Borges definiva la lotteria di Babilonia.
Ma si pone subito il problema di come si possano dire queste cose, senza rischiare di assumere altri riferimenti assoluti – e quindi contraddirsi – , di proporre altre regole, di dare per scontati altri principi. Però è spiacevole sentirsi costretti al silenzio, obbligati ad ammettere che, se non si sa di preciso cosa dire, sarebbe meglio tacere, perché anche questa rischia di apparire una scelta forte, quasi metafisica, forse mistica. Se tutto tacesse, almeno per un momento, forse riusciremmo a capire qualcosa – come suggerisce Agostino – , ma è difficile immaginare una situazione simile e allora non resta che la scelta del silenzio personale.
Eppure è bello parlare, scrivere, esprimersi, ma per dire cosa? E’ il dramma probabilmente di ogni pensiero che si riconosce debole, incapace – come diceva il professore che ha segnato tutti i miei sforzi intellettuali – di mettere le braghe al mondo e tuttavia vorrebbe esistere ugualmente, anche perché in fondo si sente in armonia con le cose, non perché le sa classificare, ordinare, spiegare, ma proprio perché talvolta ha l’impressione di riuscire a coglierle nella loro essenziale incomprensibilità. La domanda è: si può rivendicare la debolezza in maniera forte, sostenere in modo netto che non si possono avere spiegazioni metafisiche, regole, principi, che abbiano l’ambizione di vivere al di là della storia e della nostra esperienza?
Questi interrogativi sono venuti in primo piano leggendo i ricordi di uno dei maggiori pensatori deboli del nostro tempo, in occasione dei vent’anni dalla morte avvenuta il 31 ottobre del 1993. E in quei ricordi si trova una delle risposte più belle che si possano immaginare. Federico Fellini diceva di sé di essere un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo. Vent’anni prima della sua morte, nel ‘73, ero andato a vedere Amarcord per tre giorni di fila e forse solo ora riesco a comprendere fino in fondo quanto anche il grande artigiano del cinema abbia aiutato molti della mia generazione – malgrado le forti tentazioni contrarie – a non mettere le braghe al mondo.

  1. grande massimo, secondo me i dubbi ti son rimasti solo perchè Amarcord l’hai visto solo per tre giorni consecutivi: troppo pochi!

  2. Non c’entra niente — ed è ovvio — ma l’Amarcord di Fellini, così bello scritto così, dovrebbe propriamente leggersi, mettendo le braghe al mondo, come A m’arcord, il che gli farebbe perdere proprio tutta la bellezza del come dirlo.

  3. Mi corre l’obbligo, come dicevano una volta – così rimango nel clima dell’amarcord – di segnalare agli amici che il professore che ha segnato le tue scelte intellettuali è Mario Dal Pra, che é stato anche il mio Maestro.

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