L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

A Celestino

Il mio maestro delle elementari era vecchio, molto vecchio, o almeno così mi pareva quando ero piccolo, molto piccolo. Aveva una faccia da vecchio, piena di rughe, bellissima. A volte, mentre qualcuno di noi leggeva ad alta voce, si appisolava sulla cattedra e, se doveva uscire un momento dalla classe, usava il terribile metodo di mandare qualcuno alla lavagna per scrivere i buoni e i cattivi. Chissà se avrebbero dovuto diminuirgli lo stipendio, per evidenti demeriti.
Ma era vero, era buono, ci parlava come se fossimo persone importanti, ci dava consigli, ci prendeva sul serio; molti dei suoi scolari hanno continuato ad andarlo a trovare, quando ormai era in pensione, e ancora stava a sentire attentamente, partecipava alle scelte che avremmo dovuto fare, ci sorrideva con quel viso sempre più rugoso e sempre più bello. Forse avrebbero dovuto aumentargli la pensione, per evidenti meriti.
Mi ricordo il professore di lettere delle medie inferiori. Anch’egli usava metodi discutibili, come ad esempio tenere una classifica generale dei compiti in classe che veniva attaccata alla porta dell’armadio con una puntina da disegno. Era un grande tifoso di calcio e ricordo perfettamente di quando, spiegando l’ablativo assoluto, ci diceva che in caso di dubbio era meglio salvarsi in corner e, allungandosi sulla cattedra nell’imitazione del tuffo del portiere, suggeriva: cum e il congiuntivo. Forse una seria meritocrazia avrebbe consigliato di diminuirgli lo stipendio, ma per me è rimasto un mito e penso ancora a lui quando scrivo qualcosa e penso a quanti sforzi fece per insegnarmi a fare i temi, per i quali ero drammaticamente negato.
Ricordo il professore di filosofia della prima liceo, che mi convinse, dopo poche settimane, che era quella la strada che avrei voluto seguire nei miei studi universitari. Mi mandò in biblioteca a cercare dei libri per fare una ricerca che avevamo concordato tra noi due, quasi privatamente, e penso che molto della mia vita successiva sia stata segnata proprio da quella esperienza, per me allora straordinaria, perché l’argomento era il pensiero di Eraclito e ancora oggi continuo a vedere la vita come fosse un grande fiume in cui non ci si può bagnare due volte nello stesso modo. Chissà se avrebbero dovuto aumentargli lo stipendio per questo o se invece avrebbero dovuto diminuirglielo per quel sabato pomeriggio in cui, dopo la proiezione al cineforum di Vincitori e vinti, discusse con noi sull’angolo della strada fino alle 10 della sera, procurandomi una di quelle sgridate da parte di mio padre che difficilmente si possono dimenticare.
E non voglio parlare di quel professore di lettere del ginnasio che cercò di convincerci che i giocatori del Milan avevano la maglia verde perchè la rivista Latinitas, di cui si vantava di essere lettore, in un articolo che pretese di leggerci li definiva viridienses. E nemmeno quella professoressa di italiano del liceo che mi convinse che gli appunti della sua materia si adattavano meglio al quaderno a quadretti, tanto le sicurezze della sua storia della letteratura sembravano a quelle dell’insegnante di matematica. Non ci voglio pensare perché sono sicuro che avrebbero meritato di vedersi ridotto le stipendio.
Capisco che la carriera basata solo sull’anzianità non sia la cosa migliore per gli insegnanti e che forse vanno cercati altri sistemi per diversificare le carriere, come ripete Renzi in questi giorni, ma vorrei si facesse uno sforzo per trovare un’altra parola d’ordine, un altro riferimento ideale, e si smettesse di parlare di carriere basate sul merito, perché il merito non si può quantificare e può essere misurato solo da valutatori così superbi che meriterebbero di vedersi ridotto lo stipendio.
Quel maestro delle elementari che per me, almeno per me, ebbe molti meriti, sia negli anni di lavoro sia in quelli della pensione, tra i molti meriti ebbe anche quello, che certo non dipendeva da lui, di avere un nome che subito te lo segnalava come una persona che avrebbe avuto importanza nella tua vita: si chiamava Celestino.

  1. Ottimo articolo, ironico e suggestivo. Ma strano argomento. Per i prof, il cui lavoro è insegnare e valutare capacità impegno e risultati dei propri studenti, questi criteri non dovrebbero valere perché il merito non si può quantificare …. Boh ?

  2. Purtroppo insegno filosofia e non latino, ma sarei disposto a farmi due anni di TFA per l’abilitazione nelle classi A051 o A052 (cioè latino alle superiori: capite adesso dove siamo finiti?) pur di poter usare l’esempio del cum più congiuntivo, con tanto di parata in tuffo.
    Il problema è che il criterio del merito presuppone una spirale che, almeno in Italia, appare simile in modo sinistro alla cattiva infinità di cui parlava Hegel: il valore di un docente andrebbe giudicato da un preside dotato di merito, il quale dovrebbe essere scelto da un funzionario regionale meritevole, frutto a sua volta dell’indicazione di un dirigente nazionale dal merito riconosciuto etc. Il merito, nel nostro Paese, è il Dio di una teologia apofatica.

  3. Detesto la parola meritocrazia e, quando viene detta dall’ex ministro Gelmini, davvero mi sento male. La conoscenza ed il sapere sono legati alle nostre emozioni e solo chi accende una scintilla dentro di noi può permetterci di aprire finestre sul mondo; gli insegnanti precludono spesso questa possibilità anziché aprirla; ho sempre detestato la scuola, pur essendo la prima della classe, proprio per questo. Massimo Recalcati, nel suo bellissimo libro L’ora di lezione ci dice proprio questo.

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