LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

27 Gennaio. La memoria oltre gli abusi

Come ogni anno, ormai dal 2001, il Giorno della memoria è stato celebrato con numerose iniziative, in molte città italiane. Non solo ieri, domenica 27, ma nei giorni precedenti e ancora in quelli a venire. Come da ormai diversi anni, passati i primi dall’istituzione del Giorno della memoria, le celebrazioni sono state accompagnate da momenti di riflessione critica sul senso, il valore, l’efficacia dell’istituzione stessa di un giorno del ricordo della Shoah e delle sue forme attuali. Del resto, la riflessione e il dibattito critico sono sempre aperti, e da qualche anno espliciti e a volte anche aspri. Al centro della riflessione sono gli ‘abusi della memoria’ (si veda in proposito il bel libro di Valentina Pisanti, Abusi di memoria, 2012), cioè quegli usi della memoria che la svuotano di senso critico, spesso la mettono in aperta opposizione alla storia, finiscono per renderla quasi un ostacolo a quella crescita in consapevolezza e maturità della coscienza collettiva che invece la memoria della Shoah e la giornata ad essa dedicata dovrebbero perseguire. Non solo il pericolo negazionista, ma anche forme di banalizzazione e sacralizzazione della memoria della Shoah – che non mancano – sono dei pericoli, si sostiene frequentemente, che solo la storia può combattere, solo il pacato, razionale lavoro dello storico, e una pedagogia che parta dalla verità storica per educare la coscienza collettiva ai valori della democrazia e della solidarietà tra diversi. Giovanni De Luna, in un bellissimo contributo alle riflessioni sulla memoria (La Repubblica del dolore, 2011), sottolinea come in Italia la memoria stia diventando sempre più un fattore divisivo, e la proliferazione delle memorie centrate sulla figura delle vittime – spesso in competizione l’una contro l’altra – sia il sintomo della debolezza della politica di generare senso di appartenenza.

Sono dibattiti necessari, sono critiche che contengono elementi di verità. Davanti agli arresti a Napoli di candidati al Parlamento della Repubblica legati a Casa Pound, davanti alla pianificazione di orrende azioni antisemite (violentare una ragazza ebrea in una Facoltà universitaria); davanti alla diffusione di una montante incultura negazionista; davanti al timore, alla vergogna, al senso di inattualità che sembra impedire alla politica italiana anche solo di pronunciare la parola ‘antifascismo’; davanti all’indifferenza generale (il vero mostro che spiega le tragedie del passato e i rischi del presente) che avvolge uno sbarco di migranti, le inumane condizioni di non-vita nei centri di prima accoglienza; davanti alle reiterate e sconcertanti affermazioni di un ex presidente del Consiglio che continua a sostenere tesi storicamente false secondo cui le leggi razziali furono solo un atto necessario di compiacimento verso l’alleato nazista, e tutto sommato errore di un regime che per altro tanto male non fu; davanti a tutto ciò e purtroppo molto altro è giusto e opportuno interrogarsi sull’efficacia di una pedagogia, quella della memoria, che mentre vuole combattere antisemitismo, xenofobia e razzismo, rischia di banalizzare, spettacolizzare, trasformare in business, ostacolare riflessività e coscienza critica, e alla fine semplicemente stancare, annoiare. È giusto chiedere agli storici di fare il loro mestiere, chiedere alla storia di indagare le ragioni degli orrori del passato, e aiutarci a comprendere la lezione da trarne per il presente.

Ma mia figlia si chiama Anna, ha dodici anni, e non credo che ci siano chance di sottrarla all’indifferenza a cui credo che sarebbe per inerzia condannata se non facendole sentire un senso di identificazione con una ragazzina che nel 1942 aveva circa la sua età, la sua stessa voglia di vivere e guardare il cielo, ma aveva la colpa di essere ebrea; non credo che ci siano chance di sottrarla all’indifferenza se non con le emozioni della storia di vita di un testimone, o quando i testimoni non ci saranno più e potranno finalmente riposare, con lo l’emozione buona, dura e forte di un viaggio ai campi di sterminio; non credo ci saranno chance di sottrarla all’indifferenza se non portandola a vedere uno spettacolo teatrale su quella ragazzina che nel 1942 aveva circa la sua età oggi, o un film che magari sì, semplifica e forse semplificando banalizza, ma scioglie un poco il ghiaccio dell’indifferenza. Non credo ci siano chance di farle sentire che quella storia la riguarda, la tocca, la colpisce, e riguarda lei come i suoi compagni di classe, se non esponendola, in modo possibilmente sapiente, alle correnti calde di memorie agghiaccianti. Abbiamo bisogno assoluto di coscienza critica, ma non avremo mai la capacità di far agire una coscienza critica eventualmente maturata nella verità se non sentendoci parte di una storia, coinvolti e inclusi in una narrazione, non come spettatori, non come scolari che svolgono magari diligentemente un compito, ma come persone il cui stomaco si chiude, i cui occhi non possono trattenere le lacrime, la cui indignazione si accende almeno a intermittenza, ogni qual volta un simbolo ci richiama ‘alla memoria’ una storia sentita come nostra almeno una volta. Nel pensare criticamente la Giornata della memoria, non buttiamo a mare le ragioni di un momento di commozione, le ragioni di una emozione che sì, certo, non può essere tutto, ma senza la quale la storia non cammina.

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