THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Crisi e la sindrome della negazione

OECD stronca la ripresa italiana. Il 2014 si chiuderà con – 0,4%. L’Italia è l’unico G7 con PIL negativo“.

Questo titolo apparso qualche giorno fa su uno dei maggiori giornali nazionali contiene, effettivamente, una notizia. Tragica.

Ma la notizia non è che l’Italia a fine 2014 avrà prodotto meno ricchezza del 2013. Questa non è una notizia perché l’Italia è – quasi senza interruzione – in recessione dal 2008, da sette anni. Non è una notizia perché sapevamo già che il Paese è fermo da vent’anni, ed, anzi, forse è andato indietro rispetto al 1994.

La notizia vera – quella davvero tragica e, insieme, comica – è che il giornale in questione trova il tempo e lo spazio per ricordarci per inciso che, comunque, siamo un grande Paese. Membro privilegiato di un club. E, del resto, l’articolo affronta la questione del dato negativo spiegandola interamente con elementi congiunturali. In particolar modo, sarebbe il rallentamento del “commercio mondiale” l’ultimo fattore esterno che avrebbe bruciato quella “ripresa” sulla quale sia questo governo che quello precedente avevano scommesso, legandovi – esplicitamente – il proprio diritto di sopravvivere.

La notizia vera è che non solo siamo malati gravemente, ma – molto peggio – continuiamo a negarlo. Oscillando, anzi, tra negazione e rassegnazione che gli psicologi dicono essere due facce della stessa medaglia e che sono entrambe ricette certe per continuare a peggiorare.

La realtà è che non solo siamo il G7 con la minore crescita del PIL, ma siamo anche il Paese nel mondo nel quale il PIL – non da sei mesi, ma da vent’anni – sta crescendo di meno. Siamo completamente fermi. E non è solo il PIL, i noiosi dati macroeconomici a dirlo. Lo dicono i numeri sui giovani italiani che sono fuori dal lavoro e dalla studio bruciando il futuro di tutti; sulle posizioni che perdiamo nella classifica delle maggiori destinazioni del turismo internazionale; quelli sulla quota di mercato dell’Italia sull’export; sui numeri dei nuovi poveri; persino quelli – anch’essi legati all’economia e al prestigio di un movimento – dei club di calcio e delle olimpiadi. Nel 1994 quando ci siamo fermati – prima che venisse introdotto l’EURO, che abbattessero le torre gemelle e che cominciasse la crisi finanziaria globale (giusto per eliminare – una dietro l’altra – le scuse dietro alle quali i governi italiani hanno provato a nascondere le proprie responsabilità) – l’Italia fu – per qualche mese – la quarta potenza economica del mondo; alla fine di quest’anno saremo scesi al decimo posto.

Un risultato straordinario al contrario che dice di un Paese che sta riuscendo nell’impresa di essere il primo Paese ricco che muovendosi al contrario rispetto agli altri entra in una condizione di “sottosviluppo”. E ciò per un semplice fatto: mentre noi ci siamo fermati, il resto del mondo ha conosciuto la più potente fase di sviluppo della storia dell’umanità.

Forse siamo un grande Paese, ma sicuramente sempre di meno siamo un Paese grande e certamente non siamo al centro del mondo. Basta viaggiare un attimo, andare in Azerbaijan o Turchia, in Polonia o, persino, in Ucraina per rendersi conto che il resto del mondo sta scappando via senza che noi neppure ce ne accorgiamo. Dieci anni fa c’era una corriera che portava le badanti polacche a Varsavia direttamente da Caserta e i francesi votavano contro il trattato costituzionale europeo perché avrebbe spazzato via gli idraulici locali a favore di quelli che venivano da Danzica. Oggi a Craocovia nei campus universitari studiano centinaia di studenti italiani e europei.

Il mondo sta scappando via e noi – incredibile ma vero – continuiamo a fare i balletti ideologici, la comunicazione del nulla, la guerra di trincea tra lobbies. Come se il tema fosse ancora quello di preservare la propria quota di una torta da spartire e non il fatto che quella torta sta sparendo. Come se l’economia fosse un gioco a somma zero e non, prima di qualsiasi altra cosa, uno sforzo collettivo e individuale per farla crescere attraverso l’innovazione, il rischio, la creatività.

Il pericolo vero è, dunque, continuare a cercare la consolazione da chi sembra, inconsapevolmente, abituarci ad una sorta di “suicidio assistito” (espressione assolutamente truculenta ma efficace inventata da un comico diventato politico, mentre i politici si divertivano a fare i comici, laddove entrambe le cose sono abbastanza inaccettabili).
Abbiamo ancora la possibilità di farcela partendo dal nostro grande patrimonio culturale e artistico. Dai valori di chi fece un giorno l’Italia grande. Ma dobbiamo immediatamente ricominciare a lavorare, capire quale può essere il nostro ruolo, studiare, prendendoci tutti insieme la responsabilità di un progetto che può funzionare solo se coinvolge tutti.

Smettendola subito – a cominciare da chi ci governa – di condividere l’illusione di poter cambiare il mondo attraverso un tweet o facendo annunci nei talk show stando comodamente seduti su un divano.

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