Olivier Roy: “Israele ha voluto impossibile uno Stato di Palestina”

A due anni dal 7 ottobre, il Medio Oriente vive una fase di profonda transizione: la fine delle grandi ideologie panarabe e panislamiche, l’ascesa dei nazionalismi e dell’assertività israeliana, il ridimensionamento dell’Iran e il riassetto della Siria di al-Sharaa ridisegnano l’equilibrio regionale. In un contesto segnato da tregue fragili e nuove gerarchie di potere, Olivier Roy, politologo francese e tra i massimi esperti di islam politico, riflette per Reset DOC sulle prospettive della regione, sullo stallo della questione palestinese e sull’evoluzione dei rapporti tra Israele e i suoi vicini.

 

Prof. Roy, in una precedente intervista con Reset DOC, un anno fa, aveva detto che l’attacco del 7 ottobre era avvenuto perché Hamas voleva riportare Israele al tavolo dei negoziati. Che cosa pensa dell’accordo che ne è seguito?

È più un cessate il fuoco che un vero accordo: non c’è nulla di realmente definito per i negoziati futuri. Hamas non aveva scelta, ma non è stato sconfitto. La questione centrale è il disarmo, e chiaramente Hamas ha mantenuto le proprie armi. Israele, nel frattempo, è profondamente diviso. L’estrema destra oggi al potere non ha avuto altra opzione che accettare sotto la pressione americana. Netanyahu ha dovuto adeguarsi. Ma non vuole la pace con Hamas.

L’estrema destra resta fedele all’idea di un “Grande Israele”, nella Valle del Giordano come a Gaza. L’obiettivo è una guerra di logoramento contro la popolazione civile palestinese, per costringerla a fuggire o a sottomettersi del tutto. Uno Stato palestinese, per loro, è semplicemente fuori discussione. Eppure resta l’obiettivo ufficiale dell’amministrazione statunitense, e questo crea una contraddizione. In ogni caso, uno Stato palestinese oggi sembra quasi impossibile: non c’è un territorio praticabile, né uno spazio sicuro per i palestinesi. Siamo in una situazione di stallo, e solo un mutamento dei rapporti di forza potrebbe cambiarla.

 

Pensa che il cessate il fuoco reggerà, nonostante le numerose violazioni?

Né Hamas né Netanyahu sembrano pronti per un vero accordo politico: entrambe le parti stanno guadagnando tempo. Per l’estrema destra israeliana, il risultato è ambiguo: un fallimento nel breve periodo — non hanno né schiacciato Hamas né distrutto il programma nucleare iraniano — ma un vantaggio nel lungo termine. Come dicevo, il loro obiettivo è una guerra di logoramento, e quel processo è già in corso. Il cessate il fuoco potrebbe anche reggere, ma la popolazione sta morendo di fame. Ed è esattamente ciò che sta accadendo ora.

 

Quindi, sia Hamas sia il governo israeliano stanno prendendo tempo per prolungare questa prima fase della tregua…

Per Hamas, la scelta è tra continuare così o arrendersi. Il rapporto tra l’ala politica e quella militare resta poco chiaro: non sappiamo se si tratti solo di una divisione di ruoli o di una reale divergenza di vedute. Ma per la leadership militare l’opzioni sono nette: continuare o capitolare. Non esistono vie di mezzo.

 

Pensa che un disarmo totale di Hamas sia possibile?

No. Nessun esercito esterno disarmerà Hamas, né gli egiziani, né gli americani, nessuno. L’unica alternativa sarebbe un accordo politico in cui Hamas accetti di disarmarsi, ma è altamente improbabile. Potrebbero anche firmare un’intesa del genere, ma non la rispetterebbero. E senza, Hamas continuerà a tenere le armi e a mantenere il controllo su almeno una parte della società civile palestinese.

 

La leadership di Hamas è stata decimata, Fatah resta debole e priva di credibilità. Quali prospettive ci sono sul lato palestinese?

L’Autorità Nazionale Palestinese non ha legittimità: è corrotta e inefficiente. E Israele ha fatto di tutto per produrre proprio questa situazione. Hamas, d’altra parte, è un’organizzazione islamista e militare. Nessuno — né gli arabi, né gli americani — accetterebbe di consegnare le chiavi di un futuro Stato palestinese a Hamas. È semplicemente impossibile.

Siamo a un punto morto. Alcuni suggeriscono che la liberazione di Marwan Barghouti potrebbe cambiare le cose. Forse. È rispettato, forse anche capace di unire i palestinesi. Ma resta un solo uomo; non si può costruire un governo attorno a una persona. In definitiva, Israele è riuscito a rendere impossibile la nascita di uno Stato palestinese.

 

Quindi non vede alcuna prospettiva positiva, nemmeno considerando il fatto che il piano Trump punta almeno sulla carta a riconsegnare il potere nelle mani dei palestinesi, non escludendo uno la prospettiva di uno Stato…

Imporre uno Stato palestinese a Israele richiederebbe una pressione enorme da parte degli Stati Uniti e Trump non lo farà. Il suo obiettivo si limita al mantenimento del cessate il fuoco, niente di più.

 

E per quanto riguarda la Cisgiordania? Trump ha escluso l’annessione israeliana. Può questo fermare il progetto del “Grande Israele”?

Trump e gli israeliani non operano con la stessa prospettiva temporale. Trump ragiona in settimane o mesi; gli israeliani pianificano in anni: cinque, dieci, quindici in avanti. Si stanno già preparando all’era post-Trump. La loro strategia consiste nel logorare la società civile palestinese e rendere insostenibile qualsiasi accordo politico. A Trump dicono “sì, sì”, fanno una breve pausa, evitano un’escalation maggiore e poi semplicemente aspettano.

 

Nell’intervista di un anno fa aveva osservato che la divisione tra musulmani sciiti e sunniti stava prevalendo sull’ostilità verso Israele. È ancora così oggi?

La principale differenza rispetto all’anno scorso è che il cosiddetto asse sciita è stato sconfitto: Hezbollah, Bashar al-Assad e l’Iran hanno tutti subito battute d’arresto militari. Non esiste più un fronte sciita in grado di confrontarsi con Israele. Sul fronte sunnita, invece, c’è solidarietà verso i palestinesi, ma nessun vero sostegno politico o militare. In questo senso, non è cambiato nulla: nessuno è disposto a combattere per i palestinesi, nemmeno a titolo individuale. Sì, ci sono manifestazioni in Paesi come il Marocco o l’Indonesia, ma non portano a nulla. Il riavvicinamento con Israele è sospeso per ora, ma riprenderà, prima o poi.

 

Due anni dopo il 7 ottobre, Israele appare più assertivo nella regione. Come ha ricordato, l’influenza dell’Iran è diminuita e c’è una “nuova” Siria. Che tipo di Medio Oriente vede emergere?

Il panarabismo e il panislamismo appartengono al passato. Oggi la regione è definita dagli interessi nazionali. In Arabia Saudita, la svolta verso un nazionalismo saudita è evidente e lo stesso vale per l’Egitto e per la Siria, che persegue una propria agenda nazionale. Al-Sharaa sta cercando una qualche forma di accomodamento con Israele; non sostiene i palestinesi ed è sotto la pressione israeliana, anche attraverso il controllo che Tel Aviv esercita sul traffico di droga nella regione. Il Libano, intanto, ha una finestra molto stretta per riaffermarsi come vero Stato-nazione funzionante.

Stiamo quindi entrando in una fase in cui il Medio Oriente è composto da Stati nazionali, senza più “assi” sciiti o sunniti. Israele, con la sua schiacciante superiorità militare, gode di un margine d’azione quasi illimitato. La domanda per l’Arabia Saudita e gli altri Paesi è se procedere con la normalizzazione dei rapporti con Israele o tentare di formare una nuova coalizione, non per affrontarlo, ma per contenerlo.

 

Israele sostiene che il Medio Oriente sia diventato più sicuro. Condivide questa visione?

La regione non è stabile. In Libano non è chiaro se l’attuale governo, che sta facendo del suo meglio, riuscirà a contenere Hezbollah o se l’esercito nazionale sarà in grado di imporsi. In Siria non sappiamo se Al-Sharaa potrà raggiungere un’intesa con i curdi e gli alawiti. Per Israele, tuttavia, è più sicura: ha il vantaggio militare; l’Iran non rappresenta più una minaccia seria. Dunque sì, per Israele oggi è più sicuro, ma il resto della regione rimane profondamente instabile.

 

 

Immagine di copertina: un checkpoint delle forze di difesa israeliane a Hebron (foto di Mosab Shawer / Middle East Images via AFP)

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